Il viaggio di Bay Mademba – Puntata 3

Il vascello procedeva lentamente, ma dopo trecento metri il motore si fermò. Ci siamo guardati e si pensava: “Oh, che dobbiamo fare; siamo sul mare!”
Il comandante era un turco basso di statura e tarchiato, sbraitava come un ossesso “taman! taman!” che vuol dire “calmatevi! calmatevi!” Io che sapevo un po’ di turco gli ho chiesto: “nercresignà” che vuol dire “ma cosa è successo.” Lui ha detto “sciulì” che vuol dire: “speriamo di ripartire.” Perciò ho intimato ai miei compagni di sventura: “Preghiamo che il motore riparta.”
Allora giù tutti a pregare, ognuno aveva il suo Signore, chi chiedeva aiuto a Serigne Touba, chi ad Allah, chi a Gesù; chi a Budda; perché c’erano senegalesi, eritrei, etiopi, iraniani, indiani, della Costa d’Avorio e di altri paesi del mondo.
Tutti pregavano nella propria lingua con grande fervore ed ecco che il motore riparte. Poi dopo 500 metri si riferma ancora e noi ricominciamo con le preghiere. Di nuovo il motore si riavvia, rulla per alcuni minuti, poi si blocca per la terza volta. Riprendono le orazioni e finalmente il vascello si rimette in moto senza fare altre soste.
Un indiano che era sempre stato silenzioso, mi volle ringraziare per le capacità di iniziativa che avevo mostrato in quel frangente e si avvicinò a me facendo un inchino e dicendo “namastè” che significa “saluto il Dio che è in te.
Finché campo non potrò mai dimenticare il suo sorriso pieno di riconoscenza e il mondo solenne con cui pronunciò quella parola che nella sua religione ha un grande significato. Ogni volta che sono un po’ giù di corda e mi pare che le avversità della vita abbiano il sopravvento su di me, io ripenso a quel gesto deferente e riprendo fiducia in me stesso.
Il mare era sempre più mosso, tutti avevamo una paura cane, i nostri corpi erano bagnati e intirizziti, la stiva si riempiva d’acqua per cui la linea di galleggiamento del natante era quasi a filo con la superficie del mare. Eravamo consapevoli di rischiare la pelle.
In seguito ho saputo che il giorno dopo la nostra traversata, due battelli come il nostro erano andati giù a picco e i passeggeri risultarono tutti morti. Sette di loro io li conoscevo benissimo perché abitavamo nella stessa casa ad Instanbul: erano senegalesi ed etiopi.
Dopo alcune ore siamo arrivati in Grecia sull’isola di Aguattunisi. Allora il comandante ci intima: “Voi non dovete muovervi da questo posto per almeno due ore, cioè il tempo che mi occorre per prendere il largo e lasciare le acque greche. Se i militari vi vedono prima che sia scomparso all’orizzonte, vi prendono e vi imbarcano di nuovo sul mio vascello ed io devo riportarvi da dove siamo venuti.”
Dopodiché il comandante ha avvicinato l’imbarcazione vicino alla riva e uno dopo l’altro, con un salto, siamo scesi a terra. Io sono stato l’ultimo perché essendo il più forte, potevo aiutare i miei compagni.
A quel punto abbiamo fatto un fagotto di tutto ciò che mi poteva costituire un indizio per individuare i nostri paesi d’origine e lo abbiamo regalato al comandante: soldi, vestiti, foto, cartoline, lettere, liquori (alcuni avevano bottiglie di Pernod). Io mi sono rivolto ai miei compagni con queste parole: “Ora noi rimarremo fermi qui fino a domattina e lasciamo il tempo alla barca di tornare in Turchia.”
Abbiamo dormito sulla spiaggia sassosa e siccome avevamo tanto freddo, abbiamo acceso un fuoco ed abbiamo bruciato gli ultimi indizi che potevano tradire la nostra provenienza: vestiti, scarpe, cinture.
La mattina ci siamo destati verso le 10 ed abbiamo visto che c’era altra gente come noi su quella spiaggia. Ci siamo messi in cammino per raggiungere un’altra isola lì vicina, saltando da un masso all’altro lungo una scogliera.
Anche nell’altra isola c’era gente come noi che si aggirava senza una meta precisa. C’erano anche dei pastori locali che non solo non avevano timore di noialtri, ma non ci consideravano nemmeno da tanto che erano abituati a quegli sbarchi clandestini.
Siamo andati avanti tre o quattro ore, finché non siamo incappati in una pattuglia di militari che avanzavano con le armi in pugno. “Alt, alt, oh, oh!” ci hanno intimato. E noi ci siamo fermati. “Coccikato, coccikato! Mettetevi sdraiati a terra!” ci hanno ordinato. Io che capisco alla meglio un po’ di inglese, ho detto ai miei compagni: “Fermiamoci qui!” Allora i militari ci hanno detto di camminare insieme a loro; il comandante procedeva davanti con la pistola sfoderata e gli altri seguivano dietro impugnando dei manganelli. Alcuni di noi hanno cercato di fuggire, ma sono stati ripresi e alla fine ci siamo ritrovati tutti e cinquantadue insieme.
Ora ci fanno fermare e un graduato chiedi in inglese chi conosce quella lingua. Il mio amico Abdou alza la mano e viene ingaggiato come interprete.
Prima domanda. “Di dove siete venuti, che cosa fate qui?” Risposta: “Noi siamo venuti dall’Africa, dalla Costa d’Avorio; da noi c’è la guerra civile e noi siamo fuggiti per salvarci da quella carneficina, però siamo rifugiati politici. Volevamo andare in America e quello che ci ha portato qui ha detto: ‘Ecco, ora siete in America!”
I militari hanno cominciato a ridere a crepapelle: “Ah, ah, ah, ah! Qui in America? No qui non è America! Ah, ah, ah! Qui non è America, qui è in Europa!”
Noi facevamo come se non sapessimo nulla e si diceva: “No, no, no! Qui siamo in America!” E loro: “No! Qui in Grecia! Grecia, Francia, Italia. Europa qui!”
Nel nostro cuore eravamo felici, perché ora sapevamo di essere arrivati in Europa; però non potevamo dimostrare di essere contenti e dicevamo: “No, no, no, no, siamo in America, vogliamo andare in America, portateci voi in America.” E loro: “No, ormai siete qui, state tranquilli, qui siete in Grecia, ora siete profughi politici.”
Ci hanno portato in una baia dove c’era una nave grandissima e ci hanno fatto salire. Lì c’erano tutte le comodità: il mangiare, i bagni, perfino la televisione. Ci trattavano bene, ci hanno dato pane a volontà, e una pasta con le chiocciole di mare e il pomodoro.
Siamo partiti allegri come se fossimo in crociera, direzione l’isola di Patmos dove abbiamo trovato tanti altri fratelli di sventura che erano arrivati prima di noi. Siamo restati sull’isola tre giorni e poi di nuovo partenza, verso Rodi.
Rodi è una grande isola, diciamo che è la seconda capitale della Grecia. Lì era stato attrezzato un grande campo di accoglienza per i profughi.
A Rodi siamo stati tre mesi, eravamo tre gruppi: il primo di 50 persone, che era arrivato prima di noi; l’altro di 49  e noi di 52.
Avevamo dei palloni per giocare, avevamo molte camere da letto, anche se la corrente elettrica non funzionava.
Allora ci siamo organizzati per migliorare le condizioni del campo. Io che sapevo fare il falegname, ho fatto la mia parte di falegname. Gli altri che erano elettricisti hanno fatto quella. In un giorno c’era l’illuminazione dappertutto, le porte chiudevano, le finestre si aprivano. I poliziotti ci facevano i complimenti e dicevano: “Bravi, guarda come sono bravi!”
Io ci avevo tanti estimatori, tutti mi consideravano il capo di questo campo, mi chiamavano diewrin, diewrin in Senegal vuol dire colui che è sempre pronto per gli altri. C’erano tanti amici come Abdou senegalese, sudanesi, come Mphamed, Costa d’Avorio come Lefafanà, dell’Iraq come Arcadasch.
Quando c’era un incidente, cioè due persone che volevano litigare, ero io che andavo a dividerli: “No, qui siamo in questo campo per tre mesi, se noi stiamo tranquilli, fra non molto andremo ad Atene e saremo a posto, altrimenti ci metteranno in galera, ma allora tanto valeva restare a casa e non emigrare. Qui siamo sotto l’egida dell’ONU, siamo considerati profughi politici, perciò dobbiamo comportare con dignità.”
Dal campo era proibito uscire, ma fuori, a due chilometri, c’era un supermercato e due nigeriani ci andavano di nascosto a rifornirsi di alcol. L’uso di questa sostanza inebriante determinava casini e tensione la notte, molti battibecchi e qualche rissa. Io mi ritrovato continuamente a far da paciere, e non erano solo i miei muscoli a ingenerare timore fra i contendenti, ma soprattutto le mie parole dure, taglienti, che mi scaturivano direttamente dal cuore.
Nel campo c’era una cabina telefonica e una sera ho telefonato a casa. Mi ha risposto mio fratello: “Sono in Grecia, sto bene, passami la mamma!” gli ho detto in un fiato. E mi ha dato la mamma; lei piangeva, diceva: “Ringrazio Dio che sei vivo perché è tanto che non ti sento.” Io gli ho risposto: “Ce l’ho fatta ad arrivare in Europa, è stata dura, ma l’ho fatto per te, per aiutare la famiglia. Prega ancora perché io raggiunga Atene e poi l’Italia.”
Io ero in Grecia ma tutti i pensieri erano per l’italia. Anche quelli che intendevano andare in Spagna, sognavano la Spagna, altri fantasticavano sulla Francia, altri ancora si rifugiavano di arrivare in Portogallo, qualcuno si vedeva già in Germania, qualcun altro sapeva che prima o poi sarebbe giunto in Svizzera. Tutti parlavano del loro sogno.
Il primo gruppo che avevamo trovato nel campo è uscito due mesi prima di noi.
Ci siamo salutati, ci siamo augurati di rivedersi ad Etene o da qualche altra parte in Europa. Poi è partito anche l’altro gruppo.

[Tratto da “Il mio viaggio della speranza – dal Senegal all’Italia in cerca di fortuna”, di Bay Mademba, Giovane Africa Edizioni srl, Pontedera (Pisa), Copyright 2011 ]

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.