Giovani letterati e ribelli maledetti: Chi erano gli Scapigliati

Carlo Righetti, che utilizzava lo pseudonimo di Cletto Arrighi, scrisse un libro che influenzò totalmente una particolare situazione a cui nessuno aveva ancora dato voce.
Il romanzo s’intitola “La Scapigliatura e il 6 febbraio” e narra le vicende, ambientate fra il 3 e il 6 febbraio 1853, del ventiquattrenne Emilio alle prese con la vita borghese di Milano, uno spirito ribelle e, dopo aver scoperto con un colpo di scena – un duello d’amore – la vera identità del padre che lo abbandonò alla nascita, decide di far esplodere tutti i suoi istinti nella rivolta antiaustriaca scoppiata proprio in quel momento, quel 6 febbraio.
Nulla di strano fin qui, una classica storia italiana e risorgimentale. Se non fosse per un punto, nel libro, che accese la lampadina di molti lettori e soprattutto di molti spiriti irregolari che vagano a vuoto districandosi fra gli usci e i costumi di quell’Italia del Nord degli anni ’60. Il giovane Emilio, recandosi in luoghi malfamati, conduce una vita da scapigliato per sfuggire alle catene oppressive della vita borghese. Luoghi che liberano il suo spirito d’artista ed in cerca d’amore, e luoghi in cui si rende noto con altri 6 amici, formando un gruppo di ribelli antiaustriaci chiamato “Compagnia brusca”. Con questa descrizione abbastanza realistica di ciò che stava accadendo un po’ qui un po’ là, Cletto scrive nero su bianco la condizione degli intellettuali post-unità d’Italia: declassati socialmente, economicamente, relegati in secondo piano.
Il motivo, senza troppi sforzi mentali, può essere dedotto per logica: vero è che alle fiammate contribuirono molto gli intellettuali, dando voce al popolo nei salotti borghesi dove si organizzava la rivoluzione. False però sono due cose: il popolo quella voce non la sentì mai da vicino, poiché gli intellettuali comunque scrivevano anche per un pubblico colto e al popolo restava solo la fama del nome, ben poco invece di ciò che dicevano questi pensatori patrioti. La seconda cosa falsa è che gli intellettuali fecero la rivoluzione: l’Italia fu unita quasi del tutto grazie alle abilità diplomatiche di Cavour e del governo nascente, alle azioni militari di Garibaldi e dell’esercito che sarebbe poi divenuto regio, ma soprattutto all’aiuto con interessi non da poco di una Francia che voleva abbattere il mostro sacro chiamato Austria. Fu tutto un gioco politico fatto di carne, sangue ed ossa a portare all’Italia il concetto di Patria, di Nazione. Perciò fu ovvio che gli intellettuali si ritrovarono spettatori, scrittori di ciò che avveniva, ma comunque emarginati e non partecipi di tutto questo.
Rintanati nelle loro opere, ormai legati solo alle proprie arti, gli intellettuali stavano vivendo un periodo di transazione in quella nuova società, con l’elemento comune della sempre presente borghesia, prima austriaca-italiana, ora solo italiana. Ed è qui che Cletto Arrighi fa entrare in scena gli Scapigliati.


L’epicentro di questo breve, ma intenso terremoto fu a Milano, per poi spargersi in tutta la penisola. Adottarono questo nome come risposta al francese “bohèmien”, termine che si riferiva alla vita disordinata e anticonformista degli artisti parigini; pure questo termine deriva da un romanzo, “Scènes de la vie de bohème” di Henri Murger.
Gli Scapigliati crearono un nuovo tipo di letteratura e di concezione dell’arte che ancora oggi affascina e colpisce gli studiosi, poiché sono i temi, seppure comparati alla nostra società contemporanea, che piacciono alla maggior parte del pubblico, o di cui si sente spesso parlare in molti campi dell’arte, dal cinema, alla letteratura, persino ai fumetti. Questi giovani si scagliarono innanzitutto contro il Romanticismo italiano, definendolo languido e vano in confronto alle grandi ondate di passione e venti nuovi portate dalle attività risorgimentali. Però non erano ugualmente soddisfatti da queste ultime, poiché tendevano a provincializzarsi nelle singole storie delle comunità, diventando una letteratura storica di nicchia, destinata a non evolversi mai. Cominciarono così a guardare la realtà in modo differente, cercando di collegare gli aspecci fisici con quelli psichici, collegando il corpo e la mente al corpo e la mente del mondo e delle situazioni che coinvolgono l’essere umano. Divengono così ricorrenti i temi quali la malattia, il sentore di morte, le passioni intense provate nel più recondito vano delle profondità dell’anima.
Queste idee furono accompagnate da un’attività frenetica, dedita all’autodistruggersi e alla protesta contro quei valori borghesi e sociali che, dopo l’unità, li avevano spinti ai margini della società in cui loro stessi erano cresciuti. Cominciarono così a non essere visti di buon occhio, e l’Italia vide il suo primo caso di conflitto artista-società: conflitto mai dimenticato nella nostra cultura, che puntualmente, con motivazioni e tempi minori, cerca di uscire fuori nuovamente nei vari contesti della nostra epoca. Una curiosità a proposito di questo movimento: non fu mai una scuola di pensiero, perciò la cosa incredibile è che molti si ritrovarono nella stessa compagnia, o sotto lo stesso tetto di qualche taverna od osteria, perché chi più o chi meno ragionarono nello stesso modo. Segno che c’era qualcosa nel nostro paese appena nato che non andava affatto bene.
Ciò che caratterizza le loro opere, e le rende commoventi, vere e particolari, è la concezione quasi dualistica che questo movimento andò a creare: la ricerca dell’ideale assoluto s’imbatteva in una cruda realtà, scomposta oggettivamente ed anatomicamente, mostrando quanto un’idea come l’amore possa sposarsi perfettamente con la morbosità nei confronti di una donna scheletrica, malata, ma con uno sguardo di fiamme – sto parlando di “Fosca”, una delle opere base di questo movimento, libro scritto da Igino Ugo Tarchetti.
Gli esponenti di questa corrente artistica vissero mediamente fino ai 35 anni, spesso senza una dimora fissa, alcuni con dei particolari vezzi che coltivavano segretamente – si dice che Vittorio Imbiani avesse appeso con delle catenelle di ferro sul soffitto di camera sua lo scheletro intero di un pescecane, perché lo aiutava a pensare nei momenti peggiori in cui l’alcool faceva il suo effetto. Tra i vari ambiti artistici, ci si ricorda maggiormente degli scrittori Emilio Praga (morto nel 1875, a 36 anni, distrutto dall’alcoolismo: spesso si abbandonava agli stipiti della porta e l’unica cosa che diceva nell’arco di qualche ora era “ancora!”, riferendosi alla sua bottiglia vuota); Arrigo Boito (colui che rappresentò l’eccezione: scrittore di racconti scapigliati come “L’Alfier Nero” – bellissimo racconto di una partita di scacchi, che diviene mentalmente una guerriglia nella foresta, fra un uomo di colore ed un soldato – conobbe in seguito Giuseppe Verdi dopo il fallimento del “Mefistofele”, definita “nuova opera musicale” della durata di cinque ore; per Verdi scrisse l’Otello e il Falstaff); Carlo Dossi (altra rara eccezione del movimento, fu colui che divenne uno dei 150 funzionari più illustri del governo italiano) ed infine Igino Ugo Tarchetti (recluta nell’esercito per la lotta al brigantaggio, malato di tisi, muore di febbre tifoide nel 1869 a nemmeno trent’anni), che scrisse due capolavori come “Fosca” e “Una Nobile Follia”: vita di un soldato piemontese che durante una battaglia uccide un soldato russo che aveva perso di vista il proprio battaglione. Il soldato russo, prima di morire, racconta all’italiano la propria storia, molto simile alla sua per ciò che riguarda un omicidio, e decide di svestire i panni del soldato per indossare quelli del cadavere di un borghese che si trovava sulla strada: cambia identità e inizia a scrivere un diario aforismatico, andando sempre più scemando verso il baratro della follia (lo stesso libro riporta le pagine del diario) ed infine morire suicida.

Il motivo per cui un movimento del genere non può più fare ritorno è perché i costumi sono cambiati a tal punto che queste storie, questi retroscena mentali, questo tipo di narrazione, è di proprietà del commercio: commercio che questi giovani ribelli combattevano, pubblicando a puntate sui giornali locali le loro storie, anziché far stampare direttamente i propri nelle stesse case di produzione di libretti scritto apposta per i salotti. Vicenda che in un certo senso ricorda molte scelte editoriali di scrittori emergenti che non vogliono avere nulla a che fare con Mondadori o altre…
Ma soprattutto, la figura dell’intellettuale è stata convogliata nell’arma bellissima, potente e pericolosissima della diffusione di massa dell’istruzione. Non per fraintendere, è giusto così, credo che ogni uomo possa raggiungere le vette culturali di qualunque settore se lo vuole. Ma la lama è a doppio taglio nel momento in cui, una volta istruiti, è come se nulla fosse rimasto loro impresso, come se creare le idee sia semplicemente decidere un posto per sabato sera, per distruggersi fisicamente, e come scusa, proprio perché sanno, possono benissimo dire ”che male c’è? Lo facevano anche personaggi storici! Baudelaire era un genio ma beveva di brutto e fumava, ad esempio! E poi tutti i poeti si spaccavano un cifro e poi hanno fatto quello che han fatto!”.
Nessuno ha il coraggio di fare un movimento del genere perché ormai piacere e dovere sono divisi nettamente, alla parte creativa si predilige quella distruttiva. I poeti si ammazzavano d’alcool, di droga, avevano problemi ovunque, ma erano poeti. Poeti che si leggono oggi, al di là della loro vita. Al di là di questa nostra vita nessuno potrà dire “erano poeti”, perché nessuno potrà dire cosa eravamo.
“Sì ma figa, se non ti diverti adesso senza pensare a nulla chesseigiovane quando lo fai? eh? Mai lo fai!”.
Esatto. Ma se alla distruzione non si unisce l’istruzione, io aggiungerei anche “mai più”.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.