I vizi e l’arte immortale di Raffaello

Raffaello Sanzio (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520)

Un po’ donnaiolo, un po’ effemminato, scansafatiche nella vita e anche nell’arte, ma se si mette in testa di fare un’opera, può iniziarla di sera e terminarla completamente il mattino seguente, rinunciando persino a qualche passera.
Secondo Giorgio Vasari (autore di un libro destinato a diventare il diario dell’arte italiana dal ‘200 al ‘500, ovvero “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”) Raffaello nasce di venerdì santo, e perciò è destinato a fare grandi cose. Il nesso fra le due cose naturalmente non esiste, fatto sta che il pittore di Urbino diventerà uno dei più importanti della storia dell’umanità.
Studia in bottega col padre per tutta l’infanzia, da cui apprende i disegni, ma in parte si scazza e in parte il padre s’accorge che il suo talento non va sprecato. Perciò la sua prossima tappa è la bottega del Perugino, e durante questa esperienza decide che tipo di pittore vuole diventare, concentrandosi in particolar modo sull’osservazione delle cosiddette Grottesche (ovvero delle pitture rinvenute nelle grotte del colle Esquilino, a Roma, e appartenute alla Domus Aurea di Nerone).
Data la sua fama che cresce rapidamente, grazie a quadri come “Madonna col Bambino” e “La Scuola di Atene”, e nella sua vita ha modo di recarsi a Firenze per poter vedere, e parlare, con artisti del calibro di Michelangelo e Leonardo da Vinci. Con quest’ultimo personaggio avviene un fatto curioso: un giorno si reca nello studio di Leonardo per poter ammirare le sue opere e imparare tutto quello che può sapere sull’arte della pittura. Ma la visita dura sì e no dieci minuti, il tempo di restare commosso davanti al quadro della Gioconda, che è il primo e unico quadro che riesce a vedere nella sua bottega. Non dice una parola, si asciuga le lacrime, saluta il Maestro ed esce.
Un altro ruolo che svolge nella sua vita è quello di architetto. Accetta l’incarico di soprintendente ai lavori della Basilica Vaticana, con l’esperienza acquisita grazie a precedenti committenti, in particolare per Agostino Chigi, che lo obbliga a partecipare, nel 1515, a Firenze alla gara per la facciata di San Lorenzo, ma alla fine il vincitore è Michelangelo. Nella sua esperienza fiorentina ha modo di assistere alle dispute, pubbliche e private, di Michelangelo e Leonardo, la nuova generazione contro la vecchia, l’arte d’impulso contro l’ozio artistico.
L’ultima opera di Raffaello è del 1516 e coincide anche con l’ultima grande gara della sua vita, ancora una volta (seppure indirettamente, in quanto partecipava un altro a nome suo) contro Michelangelo: ciascuno dei pittori doveva produrre una pala da destinare alla sede vescovile di Giulio de’ Medici. Come al solito, e stavolta ancora di più, Raffaello lavora lentamente, tanto da non portarla a termine (la continuerà Giulio Romano), poichè muore nel 1520, ancora una volta nel giorno di venerdì santo.
Vasari ci dice che muore dopo quindici giorni di febbre acuta e continua, causata da “eccessi amorosi” e non curata nel modo corretto con continui salassi.
Il suo fare da eterno giovane, intontito dalle belle donne e dall’arte, il suo fare di vita sopra le nuvole, fanno riflettere Pietro Bembo e gli fanno scrivere un distico inciso nel Pantheon, in cui Raffaello voleva essere sepolto:
<Qui è quel Raffaello da cui, fin che visse, Madre Natura temette
di essere superata, e quando morì temette di morire con lui.>

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.