Nella testa di Dino Campana

Dino Campana è forse il poeta italiano più sottovalutato di tutti i tempi. Fino agli anni settanta del Novecento nessuno sapeva chi fosse, le scuole lo ignoravano, chi si definiva artista lo debellava dal corollario della letteratura. Non ebbe vita facile neppure dopo morto, il povero Dino. In lui credette soltanto Carlo Bo, che iniziò a divulgare la sua opera letteraria e a considerarlo a tutti gli effetti “uno scrittore in fiamme, poiché la fiamma del genio ardeva in lui, seppure non fu mai compreso.” E’ grazie al lavoro di questo straordinario critico letterario, e di chi lo seguì, che noi oggi conosciamo le parole di questo folle, strampalato e bravissimo poeta.
Dino nasce a Marradi, in provincia di Firenze, il 20 agosto del 1885. Suo padre Giovanni è un maestro elementare e sua madre, Francesca Luti, casalinga. La sua è una famiglia che viveva alla bell’e meglio, ma all’interno di essa troviamo uno zio pazzo e che, a detta di un suo biografo e della gente dell’epoca, aveva introdotto nel ragazzo il gene della pazzia. Per un carattere ereditario doveva perciò diventare pazzo pure Dino: il timore dei genitore e le malelingue del paese funsero da effetto placebo verso il giovane, che viene portato nel 1900 al cospetto di alcuni medici, i quali gli diagnosticano “impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma”. Questo è solo l’inizio, perché il germe della follia (vuoi per la suggestione a cui fu sottoposto tutta la vita, vuoi perché davvero finì col diventarlo, a causa del lento smantellamento della sua psiche provocato da un mondo ostile nei suoi confronti) germoglierà giorno per giorno, per tutta la sua vita.
Frequenta il liceo di Faenza dando dell’occhio, perché Dino comincia ad essere un po’ strano, tanto che diventa lo zimbello dei suoi compagni. Il fatto di farsi rispettare fra i suoi coetanei (ma queste sono solo voci di corridoio) possono averlo portato a frequentare l’Accademia militare di Modena nel 1903, quando ha 18 anni. A causa di una zuffa notturna sfuma la sua ambizione di divenire un Ufficiale in carriera e viene espulso dall’Accademia. Dino tenterà più volte la via del militare, cercando pure di arruolarsi volontario nella Prima Guerra Mondiale: è una tendenza curiosa in un amante delle Lettere come lui, tanto che in nessuna biografia è stata approfondita a dovere. Per conto, possiamo pure immaginare che come tutti i giovani, e come tutti gli Uomini in generale, coltivasse delle passioni che andassero oltre la sua ragione di vita, per quanto distanti da lui potessero sembrare.
Il suo primo fallimento lo porta a vivere solitario tra i monti a studiare e leggere tanto: è l’inizio della sua vita errabonda. Si iscrive all’Università di Bologna, nella facoltà di Chimica; poi passa a Firenze, continuando a leggere molto e studiare poco per i corsi che frequenta; torna a Bologna, fallisce l’esame di fisica, decide così di farla finita con l’Università, con la chimica e con Bologna e parte letteralmente all’avventura.
Tra febbraio e maggio del 1906 egli viaggia tra Pavia e Milano; poi parte per la Svizzera, nascondendosi da tutti nelle toilettes dei treni, arrivando forse fino a Parigi. Al suo ritorno a Marradi il padre sembra non avere scelta: lo interna nell’Ospedale psichiatrico di Imola, dove resta per tutto l’inizio dell’autunno. La sua famiglia non sa più che pesci pigliare per far rinsavire un figlio psicopatico: al di là di tutto, è lecito pensare che normale, nel senso di “essere a norma con gli usi, i costumi e i pensieri del vivere bene e in pace nella civiltà”, proprio non era. Si decide quindi di espatriarlo in Argentina, presso amici e parenti. Arrivato in Sud America, parte da solo per la Pampa e fa il bracciante, il pompiere, il suonatore di triangolo in una banda, sino a divenire il mozzo di una nave, l’Odessa, diretta in Europa.
Sbarca ad Anversa, va verso Bruxelles dove è rinchiuso in prigione con la sola accusa di essere un vagabondo. Scagionato, si reca a Parigi  sino alla frontiera italiana: i gendarmi, notando l’assenza di un tutore, lo spediscono alla Maison de santé di Tournai. In questo manicomio incontra lo strampalato Russo, pittore e violinista, dal quale apprende molti punti di vista con cui vedere il mondo da lì in avanti. E’ sicuramente uno dei personaggi che lo influenzerà maggiormente nel corso del suo pellegrinaggio nel mondo.
Tornato a Marradi, la sua personalità reagisce con la noia di quella vecchia vita che aveva lasciato alle spalle, con la vita fin troppo normale per lui, a cui dovrebbe sottostare, ed esplode. Dino è inquieto, si ubriaca di continuo, va in escandescenza troppo facilmente, gira per boschi e monti; la madre è odiata così tanto che è costretta ad andarsene di casa per timore di lui. Il padre opta ancora per il manicomio e il 9 aprile del 1909 ce lo porta con l’aiuto dei carabinieri; pochi giorni dopo, però, viene rilasciato poichè a detta dei medici non era pazzo abbastanza da essere rinchiuso.
Non è comunque solo questa la sua vita a Marradi. Dino, nei momenti di lucidità e di fioritura d’intelletto, studia intensamente ogni genere di cosa che gli capiti sotto mano: testi inglesi, francesi, tedeschi, italiani, tutto ciò che può portarsi dietro quando va sulle pareti dei monti che tanto lui ama, dove può vivere ciò che legge nel silenzio della natura. In preda ad uno strano ottimismo, riprende persino l’Università a Bologna nel 1913, stavolta passando quell’esame di fisica che lo aveva invogliato ad abbandonare tutto.
Vediamolo un attimo, questo Dino Campana “normalizzato”. Vediamolo con gli occhi della gente che poteva osservarlo in quel periodo: “Tarchiato, invasato, di mezza statura, si sarebbe detto un mercante, a giudicarlo dall’apparenza, un eccentrico mercante con magri affari. Le commesse dei bar, i camerieri, gli estranei lo guardavano con circospetta ilarità.” “Aveva una lunga capigliatura biondo-rame, folta e ricciuta, che gl’incorniciava un viso di salute: due baffetti che s’arrestavano all’angolo delle labbra, e una barbetta economica che non s’allontanava troppo dal mento.” Non era tanto l’aspetto fisico, dunque, a destare questa ilarità (anche se è da ammettere una certa stravaganza per i gusti dell’epoca), quanto piuttosto gli atteggiamenti che aveva. Di questa descrizione colpisce il fatto che era la gente ad indicarlo come personaggio strano, soggetto particolare: non si creava attorno nessun mito, nessuna finzione di se stesso trasposta al pubblico. Era se stesso, dentro e fuori, a differenza di qualsiasi altro D’Annunzio o Wilde di quegli anni.
In questo periodo, una nota fondamentale riguarda l’ardente passione, che si può tranquillamente paragonare ad una fede religiosa, per le opere di Nietzsche, ed è su questa scia che scrive le sue prime e bellissime poesie: La ChimeraLe cafard, Dualismo. Questi testi vengono pubblicati per la prima volta come mai era accaduto prima di allora nella storia della Letteratura italiana: sono stampati su di un giornale goliardico dell’Università di Bologna, il Papiro, e sono firmate con lo pseudonimo di “Campanone”.
Poiché pure la polizia di Bologna lo perseguita, si rifugia a Firenze e a Genova, dove conosce i futuristi; scrive Traguardo, poesia dedicata a Marinetti, e con altre le invia a Milano alla sede del Movimento Futurista. Marinetti, però, rifiuta di netto di pubblicarla, e anche i tentativi di Dino di insediarsi fra i Crepuscolari e i Vociani sono un buco nell’acqua. Inizia qui il distacco con la poesia dell’epoca, giudicata da lui troppo corrotta e opportunista per pensare solo all’arte e alle vere parole, senza vederci dietro per forza un ricavato in denaro. Questa parte della sua vita ci viene descritta dallo stesso Dino, dal ritorno a Bologna fino a Genova, dove “fu peggio. Allora fuggii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i Canti Orfici includendo cose già fatte. Dovevano essere la giustificazione della mia vita perché io ero fuori della legge, prima che finissi di morire assassinato colla complicità del governo, in barba lo Statuto. Venuto l’inverno andai a Firenze all’Acerba a trovare Papini che conoscevo di nome…”
E dunque ci va ancora, a Firenze. Porta con se il manoscritto che sarà poi il titolo di un film italiano degli anni Novanta a lui dedicato, “Il più lungo giorno”: un manoscritto in cui è viva e tangibile l’influenza nietzschiana. Dunque ci va, a Firenze. A piedi, senza un soldo, vestito di stracci. Ci va, da Papini, ed egli s’interessa a Dino come un mentecatto che non ti lascia in pace, e che fa quasi pena a vedersi. Continua a raccontarci, quel Dino che vive in un mondo tutto suo: “Il mio manoscritto me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cosw che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba. Ma non lo stampò.” Perché lo aveva perso, come una cosa di poco conto.
Ardengo Soffici, un poeta futurista, descrive Dino in questo modo: “Privo di qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguizzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per il loro accappatoi e le massaie povere per le tendine delle finestre che danno sulla strada.”
Attende risposta, il povero Dino, patendo la fame, il freddo, svolge lavori occasionali e si reca alla mostra dei futuristi per parlare con Soffici: è lì che il poeta ne traccia il suo personale ritratto. “Dormivo all’asilo notturno” continua Dino con parole avvelenate, “ed era il giorno che loro facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire. Poi seppi che il manoscritto era passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vita. Quegli sbirri fecero così perché mi sapevano strettamente sorvegliato e contro me tutto era lecito. I poliziotti mi seguivano e mi facevano insultare dovunque andavo e Papini e Soffici si fecero complici degli assassini mentre io pieno di fiducia gli abbandonavo in mano quello che era la sola giustificazione della mia esistenza.” Questo è il fulcro della vita di Campana, il punto non ritorno. Dino sa che quel manoscritto e la sua riuscita nella sua pubblicazione è tutto ciò che ha, anzi di più: è lui stesso, la sua conferma nel mondo, essere accettato dal genere umano.
Dopo aver tentato invano di farsi restituire il manoscritto dalle due “puttane futuriste”, Dino gioca la sua ultima carta: riscrive tutto a memoria, dalla prima all’ultima parola, cambiando molto e trasformando le cose più importanti, toglie e aggiunge, taglia e mette. Nel 1914, in un modo o nell’altro, riesce a dare alla stampa di Marradi i Canti Orfici, dopo essere stato rifiutato da Treves e Zanichelli e altri editori. Grazie a questo libro, Dino finalmente riesce un po’ a farsi accettare: frequenta il bar delle Giubbe Rosse, vende il suo libro, partecipa alle mostre, discute con gli artisti, Papini e Soffici gli pubblicano perfino tre poesie dei Canti su Lacerba: Sogno di prigioneL’incontro di RegoloPiazza Sarzano e lo presentano a Marinetti, il quale ora non lo vede più come uno squilibrato. Attorno a questa sua prima pubblicazione c’è un aneddoto da raccontare, per evidenziare sia la sua stravaganza, sia l’ennesima persecuzione nei suoi confronti: nell’introduzione ai Canti, com’era tipico anche nei testi di Nietzsche che adorava, aveva inserito una dedica a Guglielmo II con il sottotitolo in tedesco. Nulla di strano, se non fosse che nel 1914, anno di pubblicazione dei Canti Orfici, l’Italia fosse in aspri rapporti con la Germania, e l’indomani sarebbe entrata in guerra proprio contro l’Austria e i tedeschi. Ciò lo porta a cancellare dalle copie in suo possesso e strappare i fogli contenenti quelle dediche, per paura di essere nuovamente perseguito dalla polizia e di essere frainteso (come difatti venne frainteso).
nel 1915 va in giro per l’Italia a cercare lavoro e poi fino in Svizzera. Tornato in Italia scrive Canto proletario italofrancese. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra e lui, proprio per una sua mancata occupazione altrove, si presenta volontario al distretto, ma non viene accettato; tutto questo mentre il suo libro viene recensito sul Mattino e sulla Voce.
A Genova è colpito da una emiparesi e viene inviato all’ospedale di Marradi. Da qui in poi, la sua follia diviene chiara anche agli occhi di chi iniziava a ritenerlo lucido. Delira, e durante questi deliri ripensa all’offesa del manoscritto perduto: scrive a Soffici nel gennaio 1916 per riaverlo, sempre quel mese scrive a Papini minacciandolo di andare da lui con un coltello per farsi giustizia. Soffre di forti mal di testa, nevralgie, insonnie. E’ ora, ma solo ora, che la poesia gli sfugge tra le dita. Solo grazie a Emilio Cecchi, un critico che si può definire suo amico, riesce a stare un po’ meglio di cuore, poiché il carteggio con lui lo consola.
In questo periodo abbiamo un altro episodio della vita di Dino, divenuto famoso anche grazie al film con Stefano Accorsi. E’ doveroso dire che Dino Campana era di una misoginia quasi oscena, le donne non poteva tollerarle in nessuna forma fisica, ma solamente ideale. Sibilla Aleramo è l’unica donna che nella sua vita riesce ad abbattere questo muro d’odio e ad insinuarsi nella sua vita nel momento in cui Dino si serve della follia per completare il suo essere Umano. Sì, completare: Dino era convinto nel profondo dell’anima che la pazzia fosse una dote artistica immancabile nell’intelletto dell’Uomo, e da Nietzsche apprende di farne tesoro, di questi deliri visionari in cui tutto è chiaro e tutto svanisce così velocemente. Il rapporto con Sibilla è fatto di violenze e ingiurie nei confronti della donna, ma anche di estasi e sogni ad occhi aperti: sono tante le teorie e le idee che si scambiano i due “amanti”, chiamiamoli pure così. Lei è della scuola di D’Annunzio, ovvero falsa e opportunista nel cogliere in ogni idea, teoria ed opera l’elemento chiave che possa essere divulgato al pubblico come originale ed esteticamente accettabile; Dino è della scuola di Nietzsche in tutto e per tutto, puro e semplice, immorale e odiatore dell’Uomo vecchio che vive nella società nuova, seguace di quello Zarathustra da cui aveva imparato a vivere a modo suo.
Alla fine del ’17 i due si dividono e lui torna a Marradi. In Val di Susa progetta di fondare un giornale, ma è l’ultimo spunto letterario della sua attività artistica: i deliri lo divorano, che siano causati dall’ubriachezza o dai mal di testa e le nevrosi. Finisce nuovamente in prigione, fino ad essere internato nel manicomio di San Salvi il 12 gennaio 1918. I medici lo dichiarano demente precoce. Da lì finisce trasferito nel cronicario di Castel Pulci.
Di questo periodo abbiamo una nota biografica: “dapprima diede indizi di allucinazioni uditive, espresse idee deliranti di grandezza e di persecuzione, ebbe scatti ingiustificati… poscia… teneva discorsi strambi che non lo distraevano dal ricordo di luoghi  e nozioni di tempo che aveva in testa… trascurava i compagni, non rivolgeva loro una parola.” Il manicomio però gli piace e sente in lui un’elettricità, una sorta di telepatia o d’ipnotismo sulle comunicazioni magnetiche e radiofoniche, su Marconi, sulle scosse elettriche che ha ricevuto durante le cure, prima dell’internamento però. I suoi deliri appaiono chiari in poche frasi: “Io sono il soggetto guerra”, “il terremoto è una sepoltura dei morti”, “non invecchio mai perché la suggestione può anche ringiovanire cento duecento tremila anni di vita…” “io ho fortissima la medianità”, “la sopravvivenza medianica delle idee”, “attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa, mi investì con una forte scarica elettrica”.
Qualche suo biogrago ritiene che la sua poesia preferita fosse Genova, perché in quel manicomio la descriveva con uno splendore che pareva calmarlo e farlo ritornare a quando faceva poesia. Forse era soltanto il ricordo di quella città, dei Futuristi, del suo manoscritto andato perduto, ad attaccarlo così tanto a quella città che aveva odiato e amato, così come aveva amato e odiato tutto ciò che aveva vissuto. Conosceva l’ambivalenza in ogni cosa, per questo aveva saputo scriverla in ogni poesia, e per questa sua scelta di vita fu prima odiato, poi amato, conosciuto ed infine abbandonato a sè stesso, ai suoi deliri, così inavvicinabile anche da chi aveva tentato di stargli vicino.
il 1 marzo del 1932 muore. Non si sa con esattezza se muore per una setticemia o per una sifilide all’ultimo stadio, ma muore. E morendo realizza in pieno la sua vita, perché nella sua follia l’aveva programmata fino a questo punto, vivendo intensamente ogni attimo da che ne era conscio.
Ma per quello che ha scritto, per quello che ha fatto, era forse il più completo tra tutti i poeti che mai abbiano camminato su questa terra. Più di Rimbaud nel coraggio di agire, più di Baudelarie nel male di vivere, più di Nietzsche nella povera e misera pazzia. Perché ci piace pensare che nella sua testa lui non sia morto di follia, non si sia rifugiato in una malattia per scampare al mondo, ma come scrisse in Sogno di prigione: “Da un finestrino in fuga io? io ch’alzo le braccia nella luce!!”

Dino Campana in una foto che rappresenta gli anni all'Università di Bologna.
Dino Campana in una foto che rappresenta gli anni all’Università di Bologna.

[Fonti: Neuro Bonifazi, Carlo Bo]

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.