Il viaggio di Bay Mademba – Puntata 2

Ogni tanto sentivo mio fratello al telefono che mi chiamava dall’Italia e mi diceva: “Se Dio vuole una volta devi venire dove sono io, però ricordati che qua la vita è dura.” Io non capivo. “Lassù la vita è dura, ma nessuno torna mai indietro”, pensavo.
Ormai il dado era tratto; cercai in ogni modo di avere un permesso per l’Italia, ma per ottenerlo è una cosa diabolica in Senegal. Si devono spendere tanti soldi da dare a qualcuno che segna la pratica, e poi una volta ti dicono di sì e una volta di no. Ed io non avevo mai fortuna.
Provai allora con l’ambasciata di Francia, del Belgio e perfino degli Stati Uniti. Niente da fare! Invece quel che mi ha fatto arrivare in Italia è stato il visto per la Turchia.
Proprio quando stavo per perdere ogni speranza, i turchi mi hanno concesso un visto turistico di 15 giorni. Ho preso il biglietto di un aereo che fa scalo in Francia per poi proseguire alla volta della Turchia, e sono partito.
Quando siamo arrivati all’aeroporto di Parigi, ho cercato di sgattaiolare fuori, ma mi hanno fermato, hanno preso i miei documenti e hanno detto di no! “Tu devi andare in Turchia, dunque vai in Turchia!” hanno sentenziato gli agenti.
Arrivato in Turchia, ci restai undici mesi, facendo il venditore di orologi: una vita dura per i miei gusti.
Vivevo in una casa con ragazzi senegalesi, etiopi e sudanesi. Una sera un poliziotto turco venne a casa nostra con l’unico scopo di fregarci e non per svolgere un’indagine, in quanto il Governo non si preoccupa dei clandestini africani, perché sa che gli uomini neri sono tranquilli.
Lui è entrato e ha chiesto passaport, passaport. E noi a dire passaport jok, passaport jok che significa: niente passaporti! E lui: “Chiamo la centrale di polizia e vi rimandiamo da dove siete venuti.” “Luffén abé, luffén abé” cioè: “per favore fai il bravo, per favore fai il bravo”, gli abbiamo detto. Lui voleva i soldi e noi lo sapevamo. Allora abbiamo fatto una colletta di birmilioni, che è la moneta turca dove un birmilione equivale a un euro. Eravamo 11 ed abbiamo raccolto 11 birmilioni. Lui è rimasto contento ed è andato via.
In Turchia conobbi molti ragazzi che come me volevano andare in Europa. Lì ci sono delle persone che ti danno l’opportunità di attraversare il mare per raggiungere l’Europa. Però bisogna pagare. Altrimenti uno può provarci camminando, lungo i sentieri impervi, fino alla Grecia: a volte 7 giorni a volte 10 giorni di viaggio.
Io ho fatto la prova due volte. Per due volte ho camminato notte e giorno, e per due volte mi hanno preso e messo in carcere. Un mese e quindici giorni la prima, due settimane la seconda.
Il primo viaggio lo feci dopo solo tre giorni che ero in Turchia. Camminai insieme ad altri venti uomini per tre giorni, finché non incappammo in un posto di blocco, dove i soldati turchi ci fecero prigionieri.
Quel giorno sfortunato faceva un gran freddo, era la prima volta che io ero in questo tempo di freddo. Ci avevano portato in un bosco, eravamo stanchi e ci sentivamo cascare giù, ma ogni volta che qualcuno si lasciava andare per terra, lo facevano alzare a suon di calci gridando: “No, qui non si può dormire; è un campo militare, non è casa tua!”
A un certo punto, mentre albeggiava, ho visto in lontananza una distesa bianca che mi sembrava il mare e ho detto a un mio compagno di sventura: “Siamo vicini al mare, mamma mia, dove siamo?” E lui: “Può darsi che ci sia una barca con cui ci riporteranno in Senegal.”
Invece non era il mare, ma un campo di soffice neve! Fu una scoperta per me, perché non avevo mai visto la neve.
Ed ecco che improvvisamente, dal cielo è cominciato a nevicare, c’erano dei nevichi che scendevano giù silenziosamente. Era uno spettacolo bellissimo. Dimenticai perfino il freddo per l’emozione. Perché la neve era una cosa che desideravo tanto vedere.
Quando ero in Senegal mi ero incuriosito a guardare questo strano fenomeno meteorologico nei filmati televisivi e ad osservare come si vestiva pesante la gente europea, con maglie e cappotti. Pensavo: “Una volta spero di fare come loro.”
Al secondo tentativo di varcare la frontiera, ero in compagnia di tre amici senegalesi.
Quando ci hanno intercettato le guardie di frontiera, io ho detto di venire dalla Mauritania e i miei compagni dalla Somalia. Con questo stratagemma volevamo evitare di essere rimpatriati, poiché chi proviene dai paesi in guerra, può dichiararsi ‘profugo politico’.
“Io mi chiamo Mohamed Lamjoutass” ho affermato. E un altro: “Io Mbaliit Garap.” L’altro di poi: “Mohamed Jallò”. E l’ultimo: “Mohamed Cuma.”
Dopo alcuni giorni di interrogatori, la verità è venuta a galla e abbiamo dovuto confessare di essere senegalesi.
I militari ci trattennero due giorni, poi ci presero in consegna i carabinieri turchi per quattro giorni, infine fummo trasferiti alla polizia penitenziaria.
In carcere ad Instambul era dura, perché non mi davano tanto da mangiare. I secondini venivano la mattina con un panino così piccolo che lo buttavo giù in un sol boccone. Tornavano la sera con un panino ugualmente piccolo che prima di accostarmelo alla bocca avevo già divorato con gli occhi. Come avrò fatto a resistere tutto quel tempo io non so; ero diventato la metà del mio peso, dovevo stringere i denti; solo il pensiero della mamma e le preghiere a Dio riuscirono a salvare il mio cuore.
Al terzo tentativo di andare in Europa, ho avuto fortuna, e ce l’ho fatta a coronare il mio sogno.
Siamo partiti in 55, stipati come sardine in un minibus da 16 persone. Per due giorni si stette seduti per terra, senza mangiare, senza defecare, senza parlare, senza urlare: sennò casino! Per fare la pìpì ognuno ci aveva un barattolo. C’era caldo, non c’era aerazione; non potevamo nemmeno starnutire o grattarci il corpo. Qualcuno sveniva, qualcuno stava con gli occhi spalancati come se fosse impazzito. Il rumore lancinante del motore che mai non si fermava, ti trafiggeva la testa come una lama appuntita.
Pensavo due cose: tanto si deve morire…e la mia famiglia. Perché io ho fatto questo viaggio per la famiglia, per la mia mamma, i miei fratelli e le sorelle, e loro avevano speranze in me.
Quando siamo arrivati al mare presso Ipsala, il minibus si è fermato e abbiamo cercato di scendere. Ma non si riusciva più a camminare per via che si era stati immobili per tutte quelle ore. Si barcollava come fanno gli ubriachi, si cercava di sgranchirci i muscoli, si cascava per terra come le trottole quando non girano più. Nessuno di noi parlava, parlava il conducente del minibus che imprecava e gridava thiabok, thiabok che vuol dire, ‘veloci, veloci’, altrimenti vi scoprono ed è finita per voi.
Ci siamo così incamminati e dopo poco, scollinando, abbiamo visto il mare, un mare bellissimo, senza increspature, piatto come una tavola.
Io ero in testa al gruppo, facevo da guida sia perché ero il più alto di tutti, sia perché conoscevo abbastanza bene la lingua del posto per seguire le indicazioni che ci impartiva il nostro accompagnatore turco. “Tavarusc, silenzio”, ci diceva; “tavan tus, camminate piano” oppure “vas, di corsa.”
Come siamo arrivati alla spiaggia il nostro accompagnatore ci ha indicato un battello che ci aspettava da due chilometri di distanza sul mare. Ci ha detto di incamminarci fino là perché l’acqua non è profonda ed il fondale è quasi pianeggiante, senza buche o tonfi pericolosi. Cominciamo a camminare, Camminiamo, camminiamo, camminiamo (rari nantes in gurgite vasto), ma ci sembra di star fermi, di non arrivare mai perché sul mare le distanze si giudicano poco bene.
Dopo una mezzora qualcuno comincia a dire che non ce la fa più, qualcuno dice “lasciatemi qui, devo morire.” Allora io grido: “No, andiamo avanti ragazzi! Perché ormai siamo qui, avevamo detto che volevamo andare e allora andiamo. Io non voglio lasciare nessuno, andiamo tutti quanti! Andiamo!”
Si cammina ancora. Io a volte trascinavo per qualche tratto quelli che non avevano più la forza per procedere.
Qualcuno cominciò a buttare via gli zaini, per alleggerirsi; c’era chi si disfaceva del mangiare dell’acqua da bere, pur di continuare in questa marcia disperata. Qualcuno si levava le scarpe e i vestiti.
L’acqua mi arrivava ormai alle spalle, ero stremato, ma se c’era da aiutare qualcuno, lo facevo.
Giunti che fummo vicino al vascello, il suo comandante dette quest’ordine imperioso: “Comincino a salire quelli più bassi, i più alti devono seguire per un altro po’ la barca e poi salire.” E così abbiamo fatto.
C’eravamo tutti, meno una donna e due ragazzi che erano tornati indietro sulla spiaggia, in preda allo sgomento. Dopo poco il mare si è gonfiato e in un batter d’occhio il battello è stato circondato da onde altissime che lo sballottavano su e giù. Tutti abbiamo cominciato a vomitare, io che fino ad allora ero riuscito sempre a dar coraggio agli altri, ora ero sconfitto dal mal di mare: non avevo più la forza di far niente, pensavo di esser vicino a morire.

 

[Tratto da “Il mio viaggio della speranza – dal Senegal all’Italia in cerca di fortuna”, di Bay Mademba, Giovane Africa Edizioni srl, Pontedera (Pisa), Copyright 2011 ]

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.