Senza via d’uscita

Due professori di filosofia, rispettivamente di Antropologia Filosofica e Filosofia della Storia, sono i docenti scelti per un esame universitario in un carcere di media sicurezza. Li ha chiamati il direttore della Grande Gabbia Acchiappa-Criminali, perché ogni tanto avvengono casi rari in cui un prigioniero, non avendo nulla da fare e condannato all’ergastolo, decide di leggere, scrivere poesie, parlare di letteratura, e dare un esame di filosofia. Lo si può considerare una specie di grande rimorso che ti permette di imparare il più possibile, quasi che nella filosofia possa nascondersi, e poi trovarsi, la saggezza che serve alle persone rinchiuse da qualche parte, per chissà quale cosa. In questi termini, e fuor di metafora, siamo tutti condannati all’ergastolo: scontiamo il tempo per ciò che vogliamo fare, il nostro unico obiettivo diventa una cella, e la cella diventa il tuo mondo, e il tuo mondo comincia a piacerti. Poi muori, e si libera un posto. Via via, finché esisterà un essere umano.

Ma bando a queste banalità di un tardo pomeriggio passato ad ascoltare due occhi che hanno visto tanto, e cose di qualità.

I due professori si siedono, hanno davanti un uomo di trentacinque anni, e ne aveva appena compiuti dieci in prigione. Gliene sarebbero toccati almeno altri quindici, se non di più. Sta a debita distanza, e non si scompone, così da far capire che l’esame può cominciare in tutta la sua freddezza.

L’argomento è Montaigne, ma l’uomo lo pronuncia male e i due professori si mettono a ridere, ma lo pregano di andare avanti. E l’uomo continua, va avanti, con un acume straordinario, pone la sua anima su un tavolo, come se si stesse giocando la sua redenzione. Risponde alle domande, i due Arcangeli lo ascoltano, asseriscono, lo interrompono, sono stupefatti. Come fa un uomo con una tale intelligenza ed una pessima pronuncia dei nomi francesi ad essere rinchiuso là dentro?

Lo sguardo va sui carcerieri che stanno adiacenti ad una parete della sala, col libretto universitario dell’uomo in bella vista. Non può nemmeno tenerlo con se, non può muovere le mani. “Che cosa hai fatto?”

Questa è la domanda dei professori, e lui risponde. L’imbarazzo ormai è andato svanendo nelle prime sedute di tribunale, ora è come qualcosa che gli appartiene, che gli ricorda perché è dentro, che lo rende un eroe, una vittima, un mostro. Non mi piace pensarlo, ma posso immaginare che in questi momenti raccontare è ciò che lo tiene in vita. L’atto a volte esiste senza che ci sia un agente, ma dev’essere lui quell’agente, se lo devono ricordare tutti, suo malgrado, o morirà. ”Dimmi il tuo nome”, ”che cosa hai fatto”, il resto è pura astrazione. ”Come va?” Come cazzo vuoi che vada, sono dietro le sbarre mentre me lo chiedi.

L’uomo racconta di essere un pluriomicida. Ha ucciso due Capibastone a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia. Li ha uccisi per qualcosa, non lo vuole dire. Tanto basta, si è presentato, ”perdonate la mia scortesia ma mi stavo proprio scordando i convenevoli, ora continuo”.

L’esame finisce, prende un buon voto, i due professori si complimentano. I carcerieri consegnano il libretto ai due dotti. Ecco il marchio di Dio, la sua salvezza, quel numero a doppia cifra su un libretto destinato a gonfiarsi ancora di più, a raccogliere più firme dal Paradiso, valide per la sua anima. Poi i due si alzano per stringergli la mano. L’uomo sta fermo e si volta verso i carcerieri. Essi annuiscono, e allora lui si alza di conseguenza e stringe la mano. Poi si va a mettere addosso ad una parete, di fianco ad un segno per terra che doveva indicare la sua postazione, e da lì non doveva muoversi di un millimetro. Finite le procedure per la registrazione del voto e messo via cianfrusaglie varie, i due professori fanno per uscire. In quel momento i carcerieri fanno un segno al loro Pluriomicida di fiducia, e lui si sposta, si volta verso l’uscio. Due davanti ed uno dietro, lo scortano fuori.

I due professori rimangono di stucco, quell’esperienza li ha molto segnati. Specialmente per quello che uno dei due, il docente di Filosofia della Storia, scopre pochissimo tempo dopo. L’uomo ha sì ucciso due capibastone, ma lo ha fatto con un’arma da fuoco. E nella ressa, ha ucciso pure un tunisino. Per sbaglio, lui non c’entrava nulla, si trovava lì. Forse quello fra l’uomo e i due mafiosi era un regolamento di conti, a torto suo, perché il Corriere e altri giornali parlavano di una storia con una donna, ed il torto era che all’uomo quella donna era stata tolta in qualche modo. Ma di certe cose non si parla, perché la giustizia non guarda in faccia a nessuno. Ha ucciso due mafiosi, ma ha ucciso. Punto. Tanto basta perché sia un obrobrio della società, e tanto basta perché quell’uomo di trentacinque anni passi la vita a studiare letteratura, e a scrivere, per cercare un altro tipo di giustizia sui libri, quel senso morale che nel mondo non trova mai il suo posto, nè nel luogo nè nel momento giusto.

Un po’ come Lo Straniero di Camus.

Un po’ come il motivo per cui ho voluto scrivere questo breve aneddoto che ho ascoltato oggi ad una lezione.

Perché per me, stavolta, è il posto adatto ed il momento adatto per scriverlo. E sempre per me, perché è giusto così.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.