“Se ci fosse zio Benito…”

C’è chi non vuol sentire ragioni su Mussolini, insultandolo in tutti i modi possibili e immaginabili. C’è chi invece lo reputa un salvatore della patria in tempo di crisi e che “se c’era lui, era meglio per tutti!”. In entrambi i casi si può parlare di un errore storico: il regime di Mussolini ha portato benefici architettonici, ambientali e in un certo senso anche economici; tuttavia, più che difendere e salvare lo Stato, ha sempre cercato di difendere il potere preso militarmente e di salvare il suo regime da ogni tipo di attacco. Per svolgere proprio quest’ultima azione, ritenne necessario adoperare ogni mezzo per indottrinare gli italiani e bombardare la nazione con la sua propaganda. A cominciare dai banchi di scuola.
Carducci, Pascoli, Dante, Virgilio, Cesare: tutti i grandi poeti latini ed italiani avevano preannunciato l’avvento del Fascismo e tutti, in questo senso, dovevano essere citati nei libri di letteratura. Nelle classi si cantava una canzonetta per il Duce all’inizio delle lezioni, poi si studiava sotto il suo vigile sguardo, incorniciato alla parete e sopra il crocifisso in cima alla lavagna. In tutte le scuole di campagna è obbligatorio avere un modello di “Radiorurale” in ogni classe. Durante le ore di studio, di esercitazione nei compiti scritti o di ricreazione, i bambini ascoltavano canzoncine che cantavano i soldati durante l’addestramento o create dalla propaganda fascista. Oppure ascoltavano gli scoppi e gli spari delle esercitazioni militari, mentre un esperto di guerra spiegava al microfono cosa i soldati stessero facendo.

Benito Mussolini durante un'adunata militare.
Benito Mussolini durante un’adunata militare.

Ma la radio e la comunicazione non erano solo un elemento distintivo dell’istruzione. La dottrina fascista veniva proposta da vari radiogiornali, come la “fascistissima rubrica” “Cronache del Regime”, in cui quotidianamente si elogiavano le azioni del duce o si inventavano letteralmente i numeri di una statistica volta a dare spiegazioni sull’incremento demografico, industriale ed economico italiano. Furono creati giornali e riviste, come “L’Italiano” del 1930, o “Critica fascista” del 1923 (un periodico che traduceva ogni cosa che avveniva in Italia sotto il punto di vista del Fascismo). La radio principale del regime, “Radio Balilla”, aveva un prezzo ridotto, ma non abbastanza da far sì che tutta la popolazione se la potesse comprare: in Italia le case contenenti questo tipo di radio variavano di anno in anno tra il 39 e il 46%. Per chi avesse voluto sentire i discorsi del duce c’erano i “quasi” obbligatori incontri popolari: il Duce si affacciava al balcone di qualche importante edificio, settimana dopo settimana, mese dopo mese, in modo tale che la sua voce raggiungesse tutta l’Italia ancora prima che gli italiani raggiungessero una condizione di vita accettabile.

È necessario aprire una parentesi: quelle di Mussolini, propaganda o meno, non furono tutte parole al vento. Dei cambiamenti ci furono ed è ciò che i nostalgici ricordano con maggiore rabbia e furore: la Stazione Centrale di Milano e la bonifica dell’Agro Pontino ne sono un esempio lampante. Ma il resto di ciò che normalmente viene citato come “bei tempi fascisti” ha tutto tranne che bellezza, o utilità. Specialmente in economia, ma vediamo insieme un esempio che vale per tutti.

La “Quota 90” è la definizione, coniata dallo stesso Benito Mussolini, per indicare il progetto di rivalutazione della moneta italiana volta a raggiungere il cambio di 90 lire per una sterlina inglese. Stando ai dati del 1926 il dollaro corrispondeva a 31,60 lire, la sterlina a 153,68: il costo della vita era dunque enormemente alto. Esattamente un anno dopo il dollaro è a 18,15 e la sterlina a 88,09; fu un’operazione economica mostruosa, fatta di enormi sacrifici.  A subire i colpi più gravi della politica deflattiva furono soprattutto l’edilizia e le piccole imprese produttrici di beni di consumo, mentre continuò la tendenza espansiva nell’ambito della grande industria. Implicazione immediata della rivalutazione della moneta è la riduzione dei prezzi e dei salari, causata dalla scarsa circolazione del denaro che provocò una temporanea stagnazione della produzione. I salari di coloro che stavano sotto il livello medio-borghese si ridussero dal 10% al 20%. Il regime tagliò le tariffe postali, telegrafiche e ferroviarie, e “invitò” (ossia, non si verificò) a scontare del 20% gli affitti. Ma nonostante quei tagli, se i salari diminuiscono e tutti i prodotti, al di fuori di quelli all’ingrosso (che potevano permettersi le industrie e le aziende), mantengono un prezzo costante, dove sarebbe il guadagno? Insomma, di lavoro ce n’era. Erano i soldi a mancare.

In tempo di crisi la gente ragiona con la pancia e se la propaganda fascista parlava di dare lavoro a tutti e di tagliare le spese come poste, ferrovie e comunicazioni, alla gente tanto bastava. Ricordiamo che le prime cose su cui il regime mise le mani furono proprio i mass media: giornali, riviste, radio, comizi, cinema. Anche la Settima Arte subì l’influenza del Fascismo. Il famoso “Istituto Luce” fu creato proprio dall’Istituto Fascista di Cultura. Era importante comunicare e distrarre la popolazione con quello che ormai, specialmente dopo l’avvento del sonoro, era diventato l’intrattenimento per eccellenza delle masse popolari. I film che vennero prodotti nel ventennio fascista possono essere paragonati, per superficialità e pochezza di tematiche da proporre, ai nostri “cinepanettoni” odierni. Storie scialbe, vuote, in cui molto spesso la trama era giusto un passatempo da guardare per un’ora e mezza e niente di più. Si era snaturato così il contesto artistico del cinema e venne creata “Cinecittà”, una copia della Hollywood americana. L’unica eccezione che presentavano questi film, rispetto a quelli di Hollywood, era il continuo interesse del regime a far sfociare l’immaginario collettivo in altri posti “esotici”: se dovevano viaggiare con la mente, dovevano farlo nei luoghi indicati dal Fascismo. Così facendo in tutti i film (e proprio tutti) compariva il richiamo di Budapest, in Ungheria. Il motivo? Era il corrispettivo fascista dell’Est. Una volta capita quest’antifona, sarebbe superficiale continuare il discorso “cinema”.

 

"Figli della lupa" e "Balill" impegnati a studiare le loro nuove armi.
“Figli della lupa” e “Balilla” impegnati a studiare le loro nuove armi.

 

Torniamo di nuovo tra i banchi di scuola, ci sono altre cose da sapere. Prima che Galeazzo Ciano diventasse il responsabile della Stampa e della Cultura del paese (grazie unicamente al matrimonio con la figlia di Mussolini), a capo di questa importante carica c’era un filosofo: Giovanni Gentile, redattore del “Manifesto degli intellettuali fascisti” nel 1925. Egli creò il tanto temuto esame di Stato, ma bisogna specificare una cosa: era pensato solamente per coloro iscritti al Liceo Classico, ossia per coloro che avrebbero rappresentato la nuova classe dirigente della borghesia. L’esame era di una difficoltà impressionante, molto più di adesso. Le statistiche del 1926 videro una bocciatura nazionale pari al 75%. Ogni quattro persone, solo una veniva promossa. Naturalmente le famiglie importanti si trovarono spiazzate ed in completo disaccordo: si lamentarono del livello eccessivo e dell’inutilità di certe prove rispetto al destino dei propri figli nel mondo del lavoro. Mussolini, che non poteva restare indifferente a queste cose, rimosse Gentile dalla carica, mantenne l’esame di Stato ma lo ammorbò, specialmente nei confronti del Liceo Classico: essere bocciati là dentro divenne impossibile. Bastava avere soldi.

Un altro aspetto culturale del regime, che consentiva ulteriormente di rafforzare il motto “Libro e Moschetto: Fascista perfetto!”, era il cosiddetto “Sabato Fascista”. Recarsi in piazza già alle prime luci del mattino era d’obbligo. Si creavano parate militare con i Figli della Lupa e i Balilla, le prime due classi militari in ordine di età. Ginnastica di gruppo, balletti per le ragazze e glorificazione dell’Impero Romano Antico in parallelo col Fascismo. I lavoratori addetti alle opere pubbliche durante il sabato sgobbavano il triplo e ricevevano lo stesso stipendio di sempre; il loro compito era montare i palchi, i festoni, le decorazioni ed effettuare il trasporto delle impalcature. Lavoro che ovviamente, come qualsiasi mansione, era disponibile soltanto se iscritti al Partito.

Quello che si presentò come un anti-partito divenne il primo Partito già nel 1922. Le riforme del lavoro erano usufruibili soltanto da chi si iscriveva al Partito Fascista. Un “Partito”, in un qualsiasi manuale di diritto, è presentato come “una libera e privata associazione di persone che hanno interessi comuni, riconosciuta dallo Stato in caso di elezioni.” Ma il Partito divenne lo Stato stesso, pertanto il concetto di privato divenne pubblico, e dunque l’Italia doveva riconoscersi nel Fascismo, non esistevano alternative. Gli individui divennero un ritratto fascista: a molti stava bene così, alcuni erano veri fanatici del regime, altri ancora accettavamo passivamente per non avere guai, ma tutti quanti vennero privati del libero arbitrio, poiché “o Duce, o Morte!”
Si doveva rispondere “Sì, sono Fascista!” agli uffici di collocamento, quando si andava a cercare lavoro, ma si doveva dimostrare di essere un “fedelissimo”. Appartenere ad un partito politico non implica l’impossibilità di svolgere determinati lavori o vivere una vita sociale: è un concetto che esisteva già prima della Costituzione italiana del dopoguerra. Eppure la vita era questa, prendere o… prendere.

 

"Libro e Moschetto: il Fascista perfetto!" recitava lo slogan.
“Libro e Moschetto: il Fascista perfetto!” recitava lo slogan.

 

La cultura ottenne un’ulteriore evoluzione a partire dal 1938, con l’introduzione delle leggi razziali. Fu una decisione presa con lo scopo di mantenere ottimi rapporti col Nazionalsocialismo tedesco, che aveva già promulgato queste leggi qualche anno prima. Introdurle anche in Italia, senza che si creassero sospetti, si rivelò un gioco da ragazzi. Del resto, nel “Mein Kampf” di Adolf Hitler si legge la regola d’oro del convincimento di massa: “bombardando quotidianamente la nazione con degli slogan, s’induce il popolo a crederti per forza”.
E così, se gli storici iniziavano a dire che Giulio Cesare, il grande Dictator osannato dal Fascismo, era famoso per promulgare la mescolanza delle nazioni e delle culture, non poterono opporsi al Duce che dichiarò invece i Romani come “i più razzisti che la storia abbia mai concepito”. Citò le guerre contro i Barbari che, una volta accolti nell’Impero, lo pugnalarono alle spalle, facendolo crollare nel 476. Così i libri di storia si adeguarono di conseguenza e cercarono altri esempi di discriminazione razziale fondati (o per meglio dire, rivisitarono la storia antica in chiave fascista). Nelle università vennero creati corsi quali “Demografia comparativa delle razze” e “Storia della razza ebraica”. Gli studiosi e gli intellettuali dell’epoca si arricchirono scrivendo cose del tutto false e inventate di sana pianta.
In seguito a queste decisioni, fu necessario proibire l’importo di notizie dall’estero, perciò arte e musica divennero totalmente appannaggio del regime. Basta con le canzonette americane o in qualsiasi lingua straniera. Scoppiò di conseguenza una tendenza “swing-foxtrot” dettata da talenti italiani quali Giacobetti e Kramer, i quali scrissero un motivetto potentissimo, intitolato “Crapa pelada”. Tutti pensarono alla testa rasata del Duce, ma lui non fece mai nulla per censurarlo. Era necessario far credere che ci fosse la libertà di stampa; per questo motivo, ad esempio, permise a Benedetto Croce di restare in Italia a svolgere piccoli lavoretti in ambito culturale, nonostante fosse in totale disaccordo con la politica dittatoriale e anti-democratica di Mussolini.

Per concludere, le leggi razziali tesero a modificare anche il famoso “Pacchetto protezione” del regime. Oltre al coprifuoco dopo il tramonto, per evitare i raggruppamenti di due o più persone nelle ore in cui la propaganda fascista “allentava” la presa, e alla presenza di squadristi nelle strade (pronti a malmenare chiunque avessero trovato fuori dagli orari e limiti del coprifuoco), il regime alimentava le fiamme dell’odio razziale con manifesti e storie di gente proveniente dall’Africa. L’allontanamento dal mondo esterno aveva favorito l’aumento della paura per le “teste di moro” e per qualsiasi altra etnia diversa da quella italiana e ariana. Si trattava di semplice paura, ignorante ed ingiustificata, causata dalla mania di controllo popolare del Fascismo.

 

Pubblicità propagandistica in favore del "pacchetto protezione" offerto dal Fascismo.
Pubblicità propagandistica in favore del “Pacchetto Protezione” offerto dal Fascismo.

 

Alla luce di tutti questi elementi culturali, può scaturire una riflessione condivisibile. Propaganda o meno, non si può negare che nel regime ci sia stato un movimento culturale di massa. Pirandello scriveva e faceva teatro in Italia, così come D’Annunzio e Aldo Fabrizi coi suoi varietà, per distrarre le milizie durante il loro apprendistato. Non possiamo parlare di assenza di contenuto, quanto di vuoto nella forma. Grandi uomini e donne del passato, da Boezio a Rosa Luxemburg, hanno dimostrato che ci può essere cultura anche dove non vi è più umanità, fintanto che chi scrive ne trattiene anche solo un esile fiato nei polmoni. Ma la forma del regime, dell’impedimento di libertà di stampa e di annichilimento individuale sotto un’unica bandiera, conta molto. Con questo passato e questi insegnamenti che gli aspetti negativi del Fascismo ci hanno lasciato (circa il 75% del suo operato umano) , non sembra possibile desiderare un ritorno alla dittatura, aspettando un Duce del terzo millennio. La storia e la cultura parlano da sole, abbiamo visto cause ed effetti che la propaganda, l’indottrinamento e l’impossibilità di comunicazione con il mondo hanno prodotto nel corso di questi venti anni e poco più di regime.
La propaganda fascista è sopravvissuta al nuovo Millennio proprio perché queste generazioni odierne e nostalgiche si basano sui dati che lo stesso Fascismo, senza attendibilità storiche, reali ed effettive, faceva circolare già a partire dagli anni ’20. Ma Come abbiamo visto tramite le fonti italiane tratte dalle Biblioteche dell’Università di Milano e della Sapienza, oltre che da vari documentari apolitici stranieri dell’epoca, la realtà era ben diversa.

Con uno Stato che ti osserva e ti spinge ad ogni passo, che ti dice cosa fare, quando farla e dove farla, per quanto tempo e fino a quando, perché è giusto così. Con una cultura semplificata ai minimi storici, perché la cosa importante è il Fascismo, “bene comune di tutti” . Con una costante comunicazione dei mass media che ti faceva passare la voglia di sapere altre cose, perché quelli parlano sempre e tu vedi ogni giorno la gente fare determinate cose, per un determinato periodo di tempo, quindi ne sanno più te e perciò ti senti al sicuro. Nell’immaginario collettivo di questi giovani, o degli adulti inneggianti il Ventennio, è questo il Fascismo. Non quello fatto di numeri, ma quello corretto da ogni errore, tralasciando la cosa fondamentale: esso stesso è un errore, un fallimento di una Nazione che si è ridotta ai minimi termini per abbandonare tutto nelle mani di uno solo. Nemmeno Hobbes, che con il suo “Leviatano” aveva tracciato la figura di uno Stato-Persona, avrebbe pensato che una cosa del genere fosse realmente possibile. Difatti si può fare, perché è successo. Ma non è “umano”.
Per vivere sotto dittatura, qualsiasi sia il beneficio che può portare, è necessario sacrificare i propri diritti in favore di doveri non decisi dal singolo soggetto, ma da un solo individuo. E se molte persone oggi sono stufe di vivere in questa “falsa democrazia”, per disperazione sono disposte ad abbandonare i loro diritti umani, quali la libertà e il potere decisionale, per poter dire “fate voi, l’importante è che mangio e non muoio.” E non importa quanto si mangia. E non importa quanto si muore.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.