“L’uomo che ride”

C’era una volta un contadino che lavorava la terra dall’alba al tramonto. Si svegliava col canto del gallo, raccoglieva la sua vanga, le poche cose necessarie per sopravvivere alla giornata e s’incamminava verso il suo pezzo di terra, che ancora era bagnato dalla rugiada. Al calar della notte, con le mani che gli facevano male ed il sole che aveva picchiato sul suo capo tutto il giorno, tornava a casa. Consumava il suo pasto in silenzio, senza abbracciare la moglie e senza degnare un minimo di attenzione ai suoi figli. Si sdraiava sul pagliericcio finché non si addormentava. Nero il suo sonno, cupo il suo destino, giorno dopo giorno.
Una sera si perse mentre stava tornando a casa, probabilmente anche a causa della poca lucidità dovuta al duro lavoro. Si ritrovò davanti ad una montagna completamente nera. Un altro contadino passò di lì per casa e l’uomo gli chiese cosa fosse quel grande monte nero, sul quale non cresceva niente e che pareva oscurare tutta la zona circostante. Egli rispose che appunto era niente, un pezzo di terra abbandonato a sé stesso poiché non è di nessuno. Una volta che il passante si recò altrove, il nostro contadino cominciò incuriosito a grattare quell’ammasso di roccia e terra, finché non scoprì che non era solo la mancanza di luce a rendere nera quella montagna. Era fertile, odorosa, viva! Corse subito verso casa a dirlo alla moglie e ai figli ed insieme iniziarono a lavorare quel terreno, in cerca di acqua per coltivare. Ne fecero una terrazza, lo disteserp fino a che crearono una vera e propria torre di Babele, dalla cui cima sgorgò finalmente la futura linfa per le sue colture.
Un giorno il padrone dell’intera distesa di terra passò di lì e vide quel piccolo paradiso, con verdure e frutti di ogni sorta e un sistema d’irrigazione notevole. Chiese nei dintorni di chi fosse e riuscì a trovare il povero contadino. Il padrone voleva quella terra a tutti i costi, ma il contadino non ne voleva proprio sapere: era sua e di nessun altro. A quel punto, dall’alto del suo cavallo, il padrone rise ed esclamò “Tutto ciò che puoi vedere è di mia proprietà, anche la tua terra!” e se ne andò. Poco tempo dopo tornò con un notaio, poi con un avvocato ed infine con tutti i suoi burocrati, ma non c’era verso di far schiodare il contadino dal frutto del suo lavoro.
Un giorno il padrone ritornò nella casa di quel povero lavoratore, accompagnato dai suoi scagnozzi. Lo legò ad un palo, fece tenere fermi i bambini dagli altri e si calò le braghe, per poi violentare sua moglie davanti a tutti. Se non voleva concedere la terra, quello sarebbe stato il prezzo da pagare d’ora in avanti. Furente, il contadino si slegò dal palo, raccolse una zappa e volle avventarsi sul padrone per l’onore e per vendetta, mentre i suoi compari non riuscivano a tenerlo fermo, ma intervenne proprio la moglie. Gli parlò da terra, coi vestiti laceri, mentre il violentatore si riabbottonava il pantalone. Gli disse che non c’era alcun onore da salvare, perché quel tipo di onore a cui si riferiva il marito era quello dei ricchi, “di chi la roba la tiene”, di chi ha potere e quattrini. Loro invece avevano solo quel pezzo di terra, ed era questo il loro onore, da difendere e salvare. Arrabbiato e per pietà, il contadino si calmò. Il padrone ed i suoi sgherri se ne andarono via. Da quel momento i figli non mangiarono più e lentamente si lasciarono morire, uno dopo l’altro. La moglie impazzì e fuggì su una montagna, allontanandosi da tutto. Rimasto solo, con quella terra che ormai non rappresentava per lui più niente, si recò di buon mattino sulla cima di un colle, appese un cappio sul ramo di un albero e fece per impiccarsi, ma qualcuno lo fermò. Si trattava di Gesù Cristo.
Il figlio di Dio disse al contadino che era stato bravo a non reagire e vivere lavorando onestamente e gli chiese se avesse qualcosa da bere e da mangiare. Il contadino lasciò andare la corda e lo ospitò in casa, dove dialogò con lui. Gesù gli disse che tuttavia aveva peccato nelle sue azioni: non si era preoccupato degli altri. Credeva di aver toccato il cielo con un dito per ciò che aveva trovato quella notte, ma non aveva pensato di distribuire quel bene fra lui e tutti gli altri contadini, disgraziati quanto lui. Avrebbe dovuto condividere con loro quel piccolo pezzo di terra, se avesse voluto ricevere solidarietà, consigli ed appoggio in quel difficile momento. Sarebbero stati con lui anche contro il padrone, perché la condivisione dei beni e dei mali genera fratellanza e profonda unione. Lo rimproverò di non aver parlato con gli altri, di non aver narrato la sua situazione e di aver vissuto nella solitudine del suo lavoro. Così Gesù gli suggerì di raccontare la propria storia, affinché le altre persone con difficoltà affini alle sue si uniscano a lui nella lotta contro il potere. Il contadino rispose che non sarebbe riuscito a combinare niente; il sole lo colpiva ciecamente sul corpo ed il lavoro gli assestava i colpi finali, non avrebbe potuto esprimersi perché primo d’inventiva e di cervello. Allora Gesù gli prese la testa e lo baciò. Improvvisamente i pensieri gli esplosero in testa come tante bolle di sapone e la lingua iniziò a favellare da sola. In preda all’euforia si recò in piazza dove tutti assistettero allo spettacolo di quell’uomo che un tempo fu un contadino e che ora gli si presentava davanti come un “affabulatore”, uno sghignazzante personaggio che cantava la sua storia e la cui lingua era già divenuta un coltello con cui squarciare il ventre in cui erano racchiusi tutti i poteri forti. A colpi di risate e di racconti, colpiva con estrema violenza il padrone, i preti e le religioni da loro sottomesse senza scrupoli, le leggi a favore dei ricchi contro i più deboli.
La gente prese coscienza dei fatti per la prima volta, poiché nacque la figura del giullare.

Dario Fo si esibisce nel "Mistero Buffo" del 1969.
Dario Fo si esibisce nel “Mistero Buffo” del 1969.

Prima di inoltrarci in una breve analisi del racconto, è bene precisare che questa è una “giullarata” tradotta dal “Mistero Buffo” di Dario Fo e chiamata “La nascita del giullare”. Ha origini orientali, ma lo scritto fu ritrovato a Ragusa, nel 1800 c.a, da un ricercatore siciliano e venne datato intorno al 1200. La trasposizione teatrale che ne fece Fo, a partire dal 1969, fu una traduzione lombarda del testo siculo: ebbe la mezza idea di rappresentare un testo simile e molto più antico, ritrovato nel nord-Italia e scritto in dialetto bresciano-cremonese, ma rinunciò poiché era frammentario.
Le chiavi allegoriche del testo sono semplici quanto spettacolari. Notiamo fin da subito la vicinanza di Gesù, da sempre abituato a vivere fra la gente ed aiutare i bisognosi, al povero contadino che stava per rinunciare al suo diritto alla vita. Altrettanto chiara è l’allegoria sessuale della moglie violentata davanti al contadino legato al palo: il padrone coglie i frutti della terra lavorata dal popolo, il quale si ritrova letteralmente “a mani legate”. I figli che muoiono sono la prole che non trova posto in un mondo così crudele e senza speranza. L’esistenza di questo contadino finisce sotto il giogo dei poteri forti, che nella storia figurano nel notaio (la burocrazia, che si prende gioco dell’ignoranza di chi non può studiare), nell’avvocato (le leggi, per lo stesso motivo) e nelle guardie del padrone (il braccio armato del potere, che piega al suo volere la povera gente). La cosa incredibile è che questa triade interviene ancora oggi a discapito del popolo, ed è passato quasi un millennio. Per certi versi, il Medioevo è tutt’altro che lontano dal nostro modo di vivere.
Sebbene oggi il termine “giullare” stia ad indicare una persona che fa ridere per quello che realmente è, ossia un buffone che non combina nulla di buono nella vita, si può dire che “realmente” indica una persona che fa ridere per ciò che rappresenta, per cosa racconta e soprattutto il modo in cui manifesta le sue storie. Il nome deriva dal provenzale occitano “joglar” e dal latino “iocularis” ed indica l’artista che tra la fine dell’Impero Romano e l’avvento del Rinascimento viveva alla giornata, facendo ora il giocoliere, ora il cantastorie, ora il mimo, ora il ballerino, ecc. Per questa loro attività, i giullari erano guardati con sospetto dalla Chiesa Cattolica: ciò che oggi si chiama “censura del pensiero” ai tempi era chiamata “eresia” (per altro bellissima parola greca che significa “scelta”). Saltimbanchi e “affabulatori” (cioè “portatori di storie”) facevano paura ai poteri forti, ai padroni e agli esponenti delle varie religioni. Ebbero una funzione molto importante nella diffusione di forme di spettacolo e intrattenimento vario, ma soprattutto notizie e cultura.
Diciamolo chiaramente: con i giullari nasce la letteratura, specialmente quella italiana. Il più antico componimento  è la cantilena toscana Salv’a lo vescovo senato, che fu composta poco dopo la metà del XII secolo in ottonari ad unica rima: narra di un giullare che, con enfatiche parole, esalta Villano, arcivescovo di Pisa, per ottenere in cambio il dono di un cavallo. Il Lamento della sposa padovana è un altro frammento dello stesso secolo, proveniente da un poemetto di genere cortigiano (probabilmente imitato dal francese), che canta l’amore di una donna per il marito che combatte in Terrasanta.

 

Miniatura di un giullare del XIII secolo.
Miniatura di un giullare del XIII secolo.

 

Ma il più interessante documento di questa letteratura è il metro di origine popolare intitolato Rosa fresca aulentissima, scritto in dialetto meridionale nella prima metà del XIII secolo da Cielo d’Alcamo, della Scuola poetica siciliana. Ripreso anche nello spettacolo teatrale di Dario Fo, Cielo d’Alcamo in realtà era chiamato “Ciullo”, un termine volgare che oggi nel sud d’Italia si è trasformato in “ciolla” e che indica, per l’appunto, il membro maschile.  Al pari della sua nomea, “Ciullo” d’Alcamo compose quel testo senza cercare di essere un dotto, o un uomo di cultura, anzi. Quando il testo parla di una donna desiderata da “pulzelle e maritate”, intende proprio che quella donna è  bramata dal mondo maschile a tal punto che il suo fascino ammalia persino il gentil sesso. Il resto del testo, seguendo la stessa linea di traduzione, traccia il profilo di un’opera sensuale, ricca di spunti piccanti ben nascosti nella poesia che “Ciullo” scrisse con grande maestria. Davanti ai grandi uomini del passato, capaci di scrivere in latino, di parlare di retorica, matematica e filosofia, un giullare dimostrò di saper fare altrettanto, per di più favellando di cose frivole e scurrili. La nostra letteratura nacque con componimenti come questi, e con essi la satira come noi oggi la conosciamo.
Nella mentalità giullaresca tutto deve andare controtendenza e ribaltare il sistema, a cominciare dall’iconografia che contraddistingue questi artisti di strada. Per abbattere un potere forte e consolidato nel tempo, ci vogliono azioni, vestiti, parole e pensieri altrettanto forti e forgiati da secoli di angherie, soprusi e dimostrazioni di violenza.
L’abito fu ripreso dal “bestiario”, un testo antico che descriveva gli animali. Riprendendo le sfumature del folle e del dimenticato dalla benevolenza divina, l’immagine che i giullari assunsero fu quella di un diavolo in forma umana. I colori sgargianti e simmetrici nel tagliare per il lungo il vestito dimostravano in pubblico la loro stravaganza, così come il buffo cappello con i sonagli (simili appunto alle corna del diavolo) e ai vari oggetti che si portavano dietro. La cosa particolare è che, per canzonare completamente ogni forma di potere, avevano a disposizione un finto pastorale (il bastone del papa) che raffigurava le sembianze giullaresche del diavolo, in una smorfia di maliziosa allegria. Naturalmente non potevano mancare gli strumenti musicali, quali piatti, tamburi, trombette o strumenti a corde, che servivano per intrattenere il pubblico durante lo spettacolo o la narrazione di qualche storia.

 

Diego Velázquez, "Ritratto del buffone Juan Calabazas".
Diego Velázquez, “Ritratto del buffone Juan Calabazas”.

 

Il linguaggio che spesso scelsero per parlare alle folle fu il cosiddetto “Grammelot”. Si tratta di una tecnica molto particolare e, a tal proposito, è doveroso citare nuovamente Dario Fo, grande esponente contemporaneo di quest’arte. Senza saper articolare frasi di senso compiuto in una lingua straniera, i giullari tentavano lo stesso di parlarla per mettere in parodia parlate o personaggi stranieri, accompagnando il tutto con il linguaggio del corpo. L’effetto era molto suggestivo e scenografico, ma soprattutto coglieva nel segno. Non avendo fissa dimora, comportandosi come preferivano e con il solo scopo di stare in mezzo alla gente per mettere a nudo la società dell’epoca, il giullare aveva i mezzi necessari per svegliare le coscienze popolari e ci stava riuscendo. Per questo i padroni, i signori dell’epoca, decisero di raccattarli dalla strada e “ingabbiarli” nelle loro dimore, nei loro castelli. Per questo oggi noi abbiamo l’immagine del giullare di corte. Prima che i poteri forti decidessero di controllare a vista quella potente mina vagante che rappresentava perfettamente la gente, egli viveva in completa libertà, nelle piazze e nelle strade, per divulgare con empatia tutto ciò che rallegrava le persone o che non andava nel mondo.

 

Daniele Luttazzi venne pesantemente censurato nel 2001 e nel 2007 dai "poteri forti" contemporanei.
Daniele Luttazzi venne pesantemente censurato nel 2001 e nel 2007 dai “poteri forti” contemporanei.

 

L’ultima riflessione serve solo per capire come mai un così potente mezzo di comunicazione come la satira, la risata e lo sbeffeggiamento del potere oggi sembra essere scomparso. Se diamo un’occhiata alla vita nei secoli che ci hanno preceduto, notiamo come i maggiori sistemi che dominarono le società ed i popoli fossero dotati di una grande forza di volontà nell’essere fermi, duri, nel prendersi sul serio. Una tale tenacia e rigidezza di mentalità, nel panorama italiano, l’abbiamo vista soltanto durante il Fascismo. Ora: perché un giullare “moderno” sia in grado di affondare il colpo nei poteri forti (nel nostro caso la casta politica, la crisi e il malfunzionamento dell’Europa e dell’Italia), è necessario che la controparte sia seria. Deve essere autoritaria, blindata, circondata da un’alone di odio. E soprattutto deve dare l’impressione che, se regolata verso il bene del paese, agisca per il meglio dopo una bella strigliata. Perché la satira funzioni bisogna che ci sia speranza, una lotta che dia come risultato una vittoria popolare senza spargimenti di sangue. Invece qui si ride sempre, anche dalla disperazione.
Dalla fine degli anni ’90 lo scenario italiano è tutto tranne che stabile e i “nemici” del popolo si moltiplicano e divengono intercambiabili ogni giorno. Dal punto di vista giullaresco, pare quasi inutile accusare qualcuno di qualcosa, o il sistema di essere corrotto, in quanto si sa già, ma soprattutto perché il colpo non ferirebbe nessuno. L’immobilità nazionale di fronte i problemi ha dato il via ad una presa di coscienza equivalente a quella che si può ottenere durante le ore di lezione nei licei o negli istituti tecnici. Formazioni basilari per la cultura contemporanea, per avere argomenti di cui parlare, ma niente di più. Canzonare qualcosa o ridere di qualcuno non diventa più un elemento di riflessione, un risveglio popolare, ma solo un applauso e una risata tra una battuta e l’altra. Non che anticamente ci fosse una sommossa ad ogni battuta, certo. Ma c’era il pericolo che potesse accadere. Oggi, invece, il pericolo è che questo non possa più accadere.
“Affabulatori” del calibro di Fo, Luttazzi, Crozza e Benigni continuano ad essere quei pericolosi giullari nella nostra epoca. Però il mondo visto dallo spazio ha ormai le sembianze dell’enorme volto di un uomo che ride. E ride di sé stesso, senza sapere perché.

 

 

Un giullare in preda ad una crisi d'identità.
Un giullare in preda ad una crisi d’identità.

 

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.