L’Italia che fa ridere: “Box-Office” e “Fuga di Cervelli”

Una cosa fa ridere quando accade un collegamento neuronale tra ciò che si dice o che succede ed un conseguente rimando di contesto ad altro. Quando cioè si creano dei collegamenti tra due azioni apparentemente non coincidenti, un malinteso di significato linguistico, una scenetta che non si attiene per nulla alla realtà e fa quindi ridere per il suo non-senso. Sono le regole generali e necessaria per suscitare la risata nel pubblico, perché ciò che avviene in questo frangente non è spontaneo. Fintanto che c’è un pubblico, ossia ci sono degli spettatori che si trovano lì con lo scopo di ridere per ciò che andrà a succedere, niente può essere detto spontaneo. Tranne la risata.
Insomma: la creazione di qualcosa di comico è per forza di cose elaborato e non spontaneo; ma se suscita una risata sincera e spontanea, allora è un buon prodotto, che si presta ad essere emulato e ricordato negli aneddoti di chi ha assistito alle varie scene. Si tratta di “far ridere”, appunto. Agire perseguendo il fine di suscitare ilarità nel pubblico.
Ciò che in Italia non si fa da tempo. Si sta parlando di Box-Office (primo film italiano in 3D) e Fuga di Cervelli (primo vero e proprio film italiano nato da una collaborazione di personaggi divenuti famosi grazie ad internet, in particolare Youtube).

La locandina di "Box-Office", primo film italiano in 3D.
La locandina di “Box-Office”, primo film italiano in 3D.

Vorrei tralasciare il fatto che non fanno ridere, tuttavia non posso. Perché è proprio di questo che voglio parlare nel mio articolo. Voglio scavare a fondo, verso la radice di questo problema. Sì, perché è un problema. Ma come diceva un grande attore e uomo di cultura all’apice della sua carriera, “cominciamo senz’altro.”
Da qualche tempo i programmi comici sono diventati davvero scandalosi, e parlo di Colorado in primis. Lo dico da attento osservatore: a varie edizioni cui ho assistito, penso di aver riso soltanto alla prima (dove qualche personaggio si salvava ancora) e… basta, non ho riso. Il mio intento è però quello di non sembrare un intellettuale, poiché ultimamente si sta sviluppando la corrente totalitaria del “Se non ridi a Zelig o Colorado sei un intellettualoide, perciò non ridi mai e la tua opinione non conta perché sei noioso.” Niente affatto, anzi trovo noiosa questa definizione: è davvero difficile ridere per qualcosa di Colorado a meno che tu non abbia mai visto altro in vita tua oppure tu abbia ponderato qualcosa di sensato negli ultimi anni. Bastano anche pensieri semplici, come “se in casa manca il pane, vado a prenderlo.” Ridere è impossibile in programmi come questi perché semplicemente ciò che viene detto, o fatto, sono quelle battute o situazioni che noi diciamo o citiamo di rado nella vita reale, ben sapendo che non fa assolutamente ridere perché troppo semplice, troppo poco ricercata, è come leggere un cartello stradale in modo buffo. Non fa ridere, sembra piuttosto un tentativo infantile di attirare l’attenzione degli adulti, i quali si girano, osservano e sorridono solo se li guardi negli occhi per non provocarti dispiacere. Sono quelle battute, insomma, che fanno ridere più noi che le diciamo piuttosto che gli altri a cui le riferiamo. Perché? Perché ci fa ridere la reazione di incredulità, sgomento e impossibilità che questa cosa provoca nell’interlocutore. Questo fa ridere. Reazioni, cose che noi facciamo tutti i giorni, inerenti ad un preciso contesto, ripetuto raramente e fatto al momento giusto. Non fa ridere un “sto cazzo” detto dopo aver resa realtà la speranza che il nostro interlocutore caschi nella trappola della supercazzola. Fa ridere un vaffanculo o un “ma come stai” detto col cuore, quando avviene la fase pre-ilare, ossia qualcosa di patetico pronto ad essere smantellato e messo a contatto con la realtà.
Il connubio realtà-comicità è ciò che sembra non voler entrare nella testa dei registi di questi due film. Box Office tenta una comicità basata sui remake di film di successo, dove tutto ruota attorno al titolo rifatto male del film originale. La scena dura dai dieci ai trenta minuti, è imbarazzante l’idea in sé, sono imbarazzanti le scene e le battute. Ancora una volta: se una cosa possono farla tutti, dirla tutti, non significa che faccia ridere se esposta in un luogo come il cinema, dove tutti possono vedere e sentire qualcuno che davvero lo fa. Io penso “Viagratar” con la stessa velocità a cui penso “il tuo cervello è una sveglia: quando si attiva, la spegni.”Non fanno ridere, sono anzi parole o frasi che fanno pensare, sorridere e muoiono lì, dando così il merito ad una pensata che in effetti tutti potevano fare. Non è coraggioso usare effetti speciali, film già visti, e un pietoso finale che vuole essere una pessima parodia di 8 e mezzo di Fellini (che se fosse vivo e avesse sparato a Ezio Greggio, io mi sarei incatenato davanti al Palazzo di Giustizia per chiedere l’indulgenza e piuttosto mi sarei fatto io gli anni di carcere, perché doveva farlo e sarebbe stato giusto così). Comicità e scene stereotipate a tal punto da essere già cultura popolare, perciò non fa più ridere anche se si volesse: è finita la magia dell’attimo, del mai sentito, dell’istintiva risata davanti a una scoreggia, una parolaccia o un’espressione volgare (dove per volgare s’intende il dialetto di qualche regione).

Il cast di "Fuga di Cervelli" esibisce il tormentone del film.
Il cast di “Fuga di Cervelli” esibisce il tormentone del film.

Se una comicità la vuoi basare sul reale, proponi cose verosimili che facciano ridere proprio perché esagerano tutto ciò che potrebbe succedere, se raccontato insieme come fosse una storiella. Aldo Giovanni e Giacomo, la Smorfia, Troisi e Benigni sono solo un esempio lampante di un’Italia che faceva ridere, nel senso giusto del termine.
Poi c’è “Fuga di Cervelli”. Beh, non ho molte altre parole di quelle già espresse dalla critica italiana riguardo il cast italiano ed il film, dalla critica spagnola e americana riguardo all’idea originale del film (Fuga de Cerebros, del 2009) e dal pubblico che fra Youtube e la realtà ha stroncato in maniera netta e decisa questa pellicola. Posso aggiungere soltanto che è stato orribile sentire gente che applaudiva durante l’unica scena toccante (ed infinitamente lunga) del film, o sentirla ridere per battute che se dette al Bar dello Sport di fiducia ti mandano a cagare ancora prima che apri bocca, perché non è possibile. Attenzione, ho detto gente, non pubblico. Parlo infatti di quella decina di persone presente in sala che emetteva altri suoni oltre ai respiri, ai colpi di tosse, le sbuffate e gli sbadigli.
L’idea di creare situazioni equivoche e monotematiche nel contesto della trama; un’idea poco originale e piuttosto confusionaria, poco probabile ma basata su fatti e persone reali; le battute veramente di pessimo gusto e non certo per la volgarità, sebbene ci sia e si faccia sentire in maniera forte; le gag nate male e neanche lontanamente immaginate per caso; la pessima recitazione nei momenti clou, laddove ci siano dei momenti topici; l’agghiacciante finale carico di quel buonismo che persino la Disney dopo gli anni ’90 ha smesso di adottare; una morale che non insegna nient’altro che questo: “l’importante è fare tante cazzate con gli amici”. Ecco, no, santo Iddio no.
Attenzione ancora una volta: parlo di morale perché un film comico che si basa sulla realtà ne deve avere una, deve trasmettere qualcosa allo spettatore. Un film comico che non ha alcuna attinenza col reale, e che dunque fa ridere per il suo distacco dal senso logico e/o razionale del normale pensiero umano, non ha un senso morale. Non deve insegnare nulla, ma solo intrattenere e far divertire con ciò che d’improbabile succede. Qui invece, in questo film, si è tentato di fare comicità con la realtà, proponendo cose irreali e per di più ostentando una morale che non ha nulla a che vedere con la storia. La trama è basata sulla storia d’amore, già evidente nel primo quarto d’ora di film, che alla fine si risolve con un lieto fine per tutta la comitiva di “cervelli”, ok. E la morale è “In fondo è bello fare cazzate, e chissà quante ne faremo ancora, non vedo l’ora”? Caspita. Come se dopo aver visto Apocalypse Now una voce narrante fuori contesto, come nel peggio Grey’s Anatomy o nel meglio Scrubs, dicesse “ragazzi, del resto ogni bambino ha il suo amico immaginario, e quando gli dici addio, ne trovi di veri”.
Faccina con l’occhiolino, titoli di coda.

Vorrei concludere con una frase che a distanza di anni penso che abbia cambiato il mio modo di vedere le cose. Non tutta la realtà, certo, solo la maggior parte di quel che succede. Soprattutto quando mi chiedo “ma perché è così” in riferimento a qualcosa che mi pare assurdo. La disse paolo Bonolis, durante una conferenza tenuta all’Università degli Studi di Milano qualche anno fa. Sì, Paolo Bonolis non parla forbito solo perché un linguaggio aulico in una trasmissione quiz-comica fa ridere (a tal proposito, capito Greggio e Ruffini? Questo è comico, questo.) Persona a modo e acculturata come poche nel settore dello spettacolo e del varietà, rispose così alla domanda: “Secondo lei, perché Berlusconi, dopo tutto ciò che ha fatto e soprattutto non ha fatto, viene ancora eletto?”
Disse: “Non penso sia una questione di persona, ma di popolo. Un popolo civile viene rappresentato da ciò che più lo rappresenta, sempre.”

La coppia Ruffini-Rodriguez, conduttori di "Colorado Cafè", mentre intrattiene il pubblico con un siparietto.
La coppia Ruffini-Rodriguez, conduttori di “Colorado Cafè”,
mentre intrattiene il pubblico con un siparietto.

La cultura non sta facendo passi da gigante, e questo accade generazione dopo generazione. L’arte, la filosofia, l’era dei grandi geni non è terminata. Nel mondo essa continua, vedi Renzo Piano, architetto. Ludovico Einaudi, musicista. Steve Jobs, Bill Gates e Mark Zuckenberg, magnati dell’informatica e dei social network. Si può dire però che molto si è perso per strada, e la comicità è una di queste cose. Perché se lo Zelig di quest’anno (misero e scadente rispetto ai precedenti, a mio modesto avviso), il Colorado di quasi sempre, i pochi altri programmi rilevati su scala nazionale e atti allo scopo di far ridere, non fanno ridere, allora forse è giusto così.
Le persone che possono pensare a livelli superiori alle battute scadenti che vengono in mente a partire dai tempi dell’asilo non ridono per queste cose. Semmai ridono del fatto che qualcuno creda di far ridere e qualcun altro perfino rida nel vedere questi comici all’opera. Nella nostra società, statisticamente, sembrano essere molto pochi, indice del fatto che questa comicità è voluta dalla maggioranza degli italiani.
Il livello culturale di un popolo si riconosce da ciò per cui ride. Non so chi l’ha detta prima di me, ma spero che qualcuno lo abbia fatto. Mi verrebbero i brividi a sapere che sono il primo.

Per il momento, questo popolo civile ha ciò che più lo rappresenta.
Ma nemmeno questo mi fa ridere.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.