La Dubbiosa Commedia – Canto 3

DA ME SI FA UNO SPRITZ POTENTE,
SERVITO AI TAVOLI DA GENTE IN BOLLORE,
DA ME VI SERVE CHI EBBE MONETA TANGENTE.

LE MANI PULITE ORA DEL SANGUE IL COLORE:
QUELLO VOSTRO, VOI CHE D’ANNI PROTESTATE,
DALLE PRIME SENTENZE, DALLE PRIME MORE.

SEDUTI IN ME BEVETE E BEATE
SE NON VOI IN ETERNO, IO ETTERNA DURO.
BEVETE A SAZIETA’, E POI MI PAGATE.

Queste parole scritte in rosso oscuro
vid’io scritte su vetrine piene di teiere;
per ch’io : “Enrico, quel thè sarà puro?”

Ed elli a me, saziando il mio sapere:
“Di caffè o thè non saprei, ma scommetto
che l’insegna si rifà alla Milano da Bere.

Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto
e tu vedrai le genti mentirose
che servono ai tavoli ogni drink corretto.”.

E poi che la sua mano su mia schiena pose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
entrammo nel frastuono delle Prime Cose.

Quivi singulti, gorgheggi e politici bonsai
riversavano per l’aere come in ciel le stelle,
per ch’io all’entrar esplosi in un sorriso.

Diversi cocktail, rigurgiti a catinelle
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di bar con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quella bettola sanza tempo tinta,
come il Partito quando ‘l Fiore spira.

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è sto spettacolo che lodo?
e che gent’è che par nella bottiglia sì vinta?”

Ed elli a me: “Questo misero modo
tengon l’anime vinte di coloro
che tolser lo sforzo Partigiano d’ogni lodo.

Tramutate sono le fatiche di ragazzi d’oro
di angeli che per l’Italia furon ribelli
nè fur fedeli a Dio, ma per sè e patria foro.

Caccianli l’Inchiesta per voler essere più belli,
Tangentopoli con Chiesa che soldi riceve
ch’alcuna gloria i partigiani vollero d’elli.”

E io: “Enrico, che è quell’alcool greve
che lamentar vomitando li fa sì forte?”
Rispuose: “Dicerolti molto breve.

Questi, ch’a Milano coi denari s’andava forte
e lor testa e pancia di Liquidi era grassa,
che fuor di metafora, bevano oltre la morte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
Di Pietro e Colombo li sdegna:
non indugiamo con loro, accusa e passa.”

E io, che riguardai, vidi un’indegna
figura urlante di corsa tanto ratta,
che d’ogni cosa sua faccia m’insegna;

ed una piantina rossa dalla tasca tratta
alla gente sventagliava, Garofano deceduto
Che tangenti la linfa avean disfatta.

Poscia ch’io v’ebbi Bettino riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che tutto seppe, ma tutto fu taciuto.

Incontanente intesi e certo fui
di quella Prima Setta di veri cattivi
che sino alla P2 crearono tempi bui.

Quegli sciagurati, che mai non fur vivi,
erano bagnati, stimolati molto
da bastardi PCI, DC, PSI, PLI ch’eran ivi.

Essi imbutavano il lor corpo d’alcool molto
che, mischiato a vomito e lagrime ai lor piedi
da fastidiosi odori il posto era ricolto.

E poi ch’a guardare oltre mi diedi,
vidi fuori da lì genti alla riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi

ch’i sappia quali sono e qual costume
indossano per trapassar ‘l Naviglio sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume”.

Ed elli a me: “La distruzione del ponte
che per secoli fu pervaso di passi
fu dovuto a Mani Pulite e alle sue onte.”

Non capendo la metafora, feci li occhi bassi
temendo che a li suoi fossi idiota come una trave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso di noi venir per nave
un uomo, bianco per metà pelo,
gridando: “Eqquesto non vabbene, anime prave!

Voi vi state divertendo, volete la pelle coperta
i’ vegno per menarvi all’altra riva
di qua e di là in eterno, Pugno teso e Mano aperta.

E tu che se’ costì, anima viva,
vatt’inna da codesti Partiti morti.”
Ma poi che vide ch’io lo derideva,

disse: “Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
il Naviglio nel fondo convien che ti porti!”

E ‘l duca lui: “Capezzone, non ti crucciare:
cambiasti idea così colà, pagato a Quote
con ciò che tu vuole, taci e più non sentenziare.”

Quinci fuor tristi le scavate gote
al nocchier della livida palude,
che ‘ntorno alli occhiali avea le fiamme rote.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar giudizio e dicendosi “perdenti!”
ratto che ‘nteser le parole crude:

Scilipoti e D’Alema contro Parenti,
Rutelli cui dell’Ulivo non avea altro che ‘l seme
di vecchie Alleanze e di Tradimenti.

Poi con Fini e Flavia Vento furono insieme,
forte piangendo, alla riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Politica non teme.

Capezzon vigliacco, con occhi di bragia,
loro accennando, tutti li raccoglie;
li batte col remo, ma con la Vento nuda s’adagia.

Come d’estate si vengan certe voglie
con l’arietta di mare, fin che con un ramo
o altro all’improvviso l’orgasmo la coglie,

Similmente il mio seme d’Adamo
s’immaginava su lo viso suo, goccia una ad una
ed ella per cenni come augel mi fece un richiamo.

Ma appena partito l’ormone, ecco s’en va bruna,
e con lei gli altri che di là discese,
già di qua nuova schiera s’auna.

“Ragazzo mio”, disse ‘l maestro cortese,
“Quel che tu ora pensavi, sant’Iddio,
convien che la smetti o io ne faccio le spese;

sicché io son morto ma non esente al disio,
se non ci penso, ma leggo in te la voglia, mi sprona
all’intensa voglia di orgia che manco al carnevale di Rio.

La Flavia Vento, si sa, è stupida ma bona;
e però, se Capezzone di te si lagna
ci interrompe il viaggio, e Politica non perdona.”

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che del movimento
un’onda dal Naviglio nostre vesti bagna.

“Un rutto di quelli al bar, ogni cento,
fa tremare la terra per miglia e miglia”
disse Enrico, e ciò mi convinse ad urlare “Mi pento!”

Capezzone tornò, portandoci Destra con sguardo da Triglia.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.