Il viaggio di Bay Mademba – Puntata 1

à yaye Fatou Kine Fall

Quando ero in Senegal, a otto anni ho sentito pronunciare da qualcuno il nome dell’Italia; tuttavia il primo nome di un paese europeo che ho conosciuto, è stato la Grecia. Il babbo di un mio amico lavorava sui pescherecci di armatori greci, i quali raccontavano delle cose meravigliose su quel che accadeva lassù in Europa.
Io mi immaginavo chi sa che, mentre, ora che ci vivo, vedo che la realtà è ben diversa dai miei sogni.
In Senegal persi il mio babbo; lui aveva quarantadue anni. La mamma era molto giovane perché si era sposata a tredici anni, ed aveva nove figli. Io avevo sette anni.
La mamma dovette darsi da fare per crescere i figli, per fortuna cinque erano maschi e via via che crescevano potevano portare un aiuto economico. Per farsi coraggio ci dicevamo l’un l’altro: “Ora che non c’è più il babbo, noi siamo i babbi, noi siamo i fratelli, noi siamo gli zii.”
A dodici anni la mamma mi mandò a Thiès, una città distante 75 chilometri da Dakar, a casa del professor Bath che mi ospitò gratuitamente e mi insegnò la cultura francese. Lì ho provato a fare il contadino, ma la vita era dura e dopo due anni sono tornato a casa.
Ho studiato fino a sedici anni, ma non vedevo l’ora di dare il mio aiuto alla famiglia e anche durante la scuola, se trovavo da far qualcosa, lo facevo.
A sedici anni mi impiegai come falegname da un artigiano ed imparai a costruire finestre, porte e mobilia in genere. Guadagnavo un pochino di soldi, diciamo tre euro al giorno, cioè tremila CFA senegalesi.
La mattina, mentre ero al lavoro, una mia sorella passava con la borsa per andare al mercato e diceva: “mamma mi ha detto di farmi dare dei soldi per la spesa.” Ed io davo tutto quello che avevo, e mi rendevo conto come era stato bravo il mio babbo, quando da solo si preoccupava di campare tutta la famiglia.
Ma i soldi non bastavano mai ed io mi inventai un altro lavoro per poter sostenere meglio la mamma.
Siccome avevo notato un grande parcheggio dove c’erano tanti taxi, una mattina, prestissimo, alle cinque, con uno strofinaccio in mano, cominciai a pulire per bene tutte le automobili che saranno state un centinaio. Qualcuno mi dette cinquanta centesimi (duecento CFA), qualcun’altro niente, perché nessuno mi aveva chiesto di fare quel servizio di autolavaggio.
Per arrotondare il mio magro guadagno di lava macchine, in quel periodo mi producevo in spettacoli teatrali, perché noi della mia famiglia siamo da generazioni e generazioni dei griot, cioè cantastorie. In seguito, sfruttando la mia possanza fisica (sono alto quasi due metri, senza un filo di grasso), ho iniziato a fare l’insegnante ginnico in una palestra.
Insomma mi davo da fare come fanno tanti uomini in Senegal.
Ci sono ad esempio dei capifamiglia con molte persone a carico che, pur non avendo un lavoro fisso, la mattina si alzano presto per trovare qualcosa con cui sfamare i congiunti.
Si svegliano alle quattro, fanno la preghiera, poi escono senza una meta precisa, e ogni giorno, grazie alle mani di Dio, alle dieci hanno raggranellato qualcosa da dare ai propri cari.
C’è chi va al porto, dove magari ci sono dei battelli con viaggiatori provenienti dall’Europa, i quali hanno bisogno di facchini per trasportare i numerosi bagagli che sempre si portano dietro. E così, ci si mette qualche soldo in tasca con le mance. Oppure qualcuno va al mercato, dove c’è sempre tanto da fare, e trova spesso un lavoretto da sbrigare in cambio di qualche soldino.
Ma io, per quanto mi impegnassi, combinavo poco e non riuscivo ad aiutare la mia famiglia come avrei voluto.
Ero giovane, pieno di fiducia in me stesso, ottimista. Avrei voluto espatriare verso l’Europa, ma non era facile perché ci volevano molti soldi per ottenere un visto e non sempre la cosa andava in porto. Allora decisi di andare in Costa d’Avorio, dove il permesso di soggiorno costava 15 euro l’anno, cifra che per gli europei è bassa mentre in Africa è qualcosa. Sono partito nel 1998, e ci sono stato due anni.
In Costa d’Avorio si sono trasferiti molti senegalesi che lavorano, hanno i soldi e stanno bene. Io vivevo in un centro che si chiama Trechiville, nella capitale che si chiama Abigjan. Lavoravo sul plateau, cioè nel centro economico, nella city, dove ci sono gli uffici economici e finanziari, davanti a una banca di nome BAD (Banque africaine développement).
Quelli della Costa d’Avorio erano bravi ed io ci stavo bene.
Vendevo vestiti bellissimi comprati a saldo nei negozi d’Europa. Per ogni cliente sapevo presentare l’abito giusto, intuivo che preferiva il completo elegante o lo spezzato sportivo, se prediligeva i colori sobri o quelli sgargianti, le linee classiche o quelle di tendenza che amano i giovani. Insomma accontentavo la clientela e guadagnavo qualcosa.
L’unico problema erano alcuni militari della Costa d’Avorio che non erano bravi. Appena arrivi ti danno all’istante il permesso di soggiorno perché hai pagato, ma ogni giorno che vai a vendere per le strade o anche se vai a fare un giro, se loro ti vedono, ti avvicinano, ti controllano, ti chiedono di esibire il permesso di soggiorno. Se tu glielo fai vedere, i gendarmi te lo ritirano e poi ti dicono la frase parli bene francese? Che vuol dire dai i soldi! Se dai un euro, loro dicono sentor che vuol dire è poco, non va bene. Parla bene francese insistono a dire, che ora significa dai due euro.
Sempre sempre ci taglieggiavano perché ci sono tanti immigrati africani in Costa d’Avorio. Molti vengono dal Niger, molti dal Mali, molti dall’Angola, molti dal Senegal, molti dal Camerun, perché la Costa d’Avorio è un paese ricco e le cose vanno bene.
In Costa d’Avorio parlano tante lingue, hanno 75 dialetti, ma l’idioma nazionale è lo giulà.
Mi è successa una cosa in Costa d’Avorio che io non potrò mai scordarmi.
Ecco, accade che una volta conosco un signore che diceva di avere la possibilità di far ottenere un visto per l’Europa. Io non avevo i soldi che lui chiedeva, ma avevo un amico che mi aveva detto: “se tu ti fidi di qualcuno che può farmi avere un visto per l’Europa, se me lo presenti, io mi fido di te che non mi ingannerà.”
Siccome io mi fidavo di questo signore, gli ho detto: “io non ho i soldi, ma ho un amico che ha i soldi e vuole andare in Europa.” E lui di rimando: “va bene, niente problemi!”
Il mio amico mi ha dato la cifra pattuita, 600 euro ed io ne ho dati a lui una parte, come anticipo. Questo faccendiere ci ha dato l’appuntamento per tre o quattro giorni dopo.
Dopo tre giorni il mio amico è venuto da me e mi ha detto “allora, dove siamo?” Faccio io : “il signore mi aveva detto tre o quattro giorni, perciò dobbiamo sperare”. L’indomani niente, dopodomani niente.
Abbiamo aspettato una settimana, poi io ho telefonato al signore e lui mi ha risposto: “oh, ma perché volete essere così veloci, non è mica una cosa tanto semplice!” Ed io ho ribattuto: “ma sei tu che hai parlato di tre o quattro giorni di attesa; noi abbiamo aspettato, ma non è successo niente, come mai?” E lui fa: “va bene, vengo domani da te!”
Quando è arrivato ha dichiarato: “Tutto a posto, ma per ritirare il visto dobbiamo andare alla casa di questo mio amico che, facendo parte del Governo, vuole mantenere discrezione e riservatezza.”
Allora si parte e si va ad una ventina di chilometri, in un quartiere per me sconosciuto. Giunti davanti a un portone, lui scende e ci dice di aspettare fuori mentre sale in casa dell’amico. Ha fatto due o tre passi verso il portone, poi è tornato indietro allargando le braccia e con queste parole in bocca: “Oh, mi ero dimenticato dei soldi a completamento della cifra che abbiamo stabilito.” Poi ha aggiunto, strizzandoci l’occhio: “Il mio amico è un pignolo.”
Io gli ho consegnato i trecento euro mancanti e lui si è avviato verso il portone. Ma di nuovo è tornato indietro e ci ha restituito 20 euro, dicendo che ci voleva bene e ci faceva uno sconto.
Fece ciò perché era un uomo di testa, lui sapeva che ci avrebbe abbandonato lì, e voleva che si potesse prendere un taxi per tornare a casa.
Abbiamo aspettato un’ora, poi due ore. Il mio amico ha detto: “E’ troppo durabile, dura troppo, come mai?” Io ho chiamato il faccendiere sul telefonino ed ho subito capito dai rumori che avvertivo che mi rispondeva da un’automobile in movimento.
“Dove sei?” dico. “Sono in casa del mio amico”, mente lui. Di corsa, come non ho mai corso in vita mia, sono al portone, lo spalanco e vedo che non portava una casa ma dava sulla strada. Non potevo dir niente “sì dentro impietrai“; stavo zitto zitto come non sono mai stato zitto in vita mia.
Mi raggiunge il mio amico ed esclama pieno di meraviglia:
“Ah, è una strada!” “Come dobbiamo fare?” chiedo io. “Ah, non lo so”, fa il mio amico, “io ho dato i soldi a te e tu li hai dati a lui!”
Allora presi tutto ciò che avevo racimolato fino ad allora e detti a tutti i miei risparmi, perché era stata colpa mia di fidarsi di quel truffatore.
Così sono tornato in Senegal con le pive nel sacco e senza nemmeno un centesimino per far cantare un cieco. Il mio amico invece, con quei soldi ha trovato il verso di ottenere un visto ed è volato in Francia. Una sera mi ha telefonato annunciandomi: “Sono arrivato in Europa” “Va bene per te” gli ho risposto, “quanto a me, si vede che ancora non è il mio turno.”
In seguito ho sentito alla radio che quel signore che mi aveva fatto quella truffa, lo avevano arrestato per aver commesso gravi crimini. Ho pensato: “Anche se gli è successo per altri motivi, lui doveva comunque finir male, perché si è approfittato della mia fiducia.”
Arrivato all’età di ventisei anni, decisi di tentare il tutto per tutto per andare in Europa.

 

[Tratto da “Il mio viaggio della speranza – dal Senegal all’Italia in cerca di fortuna”, di Bay Mademba, Giovane Africa Edizioni srl, Pontedera (Pisa), Copyright 2011 ]

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.