Hobbes, il Leviatano che sorvola l’Europa

Thomas Hobbes (Malmesbury, 5 aprile 1588 – Hardwick Hall, 4 dicembre 1679)

In un’Inghilterra sconvolta dalla guerra civile, iniziata nel 1642, e dalla decapitazione di Carlo I nel 1649, a cui segue il Commonwealth, soltanto un uomo cerca con tutte le sue forze di risanare le ferite e guarire la società, scrivendo uno dei testi più equivocati e maleinterpretati di tutti i tempi: Thomas Hobbes e il suo “Leviatano”.
Nasce nel 1588 nè in ricchezza e neppure in povertà. Suo padre è un uomo casa e chiesa che viveva di predicazioni, e non gli interessa affatto conoscere qualcos’altro al di fuori della bibbia e del tornaconto mensile. Un giorno, a causa del suo carattere chiuso, litiga con il parrocco di Malmesbury ed è costretto a lasciare la cittadina per sempre; agli studi del piccolo Thomas ci pensa uno zio, che ottiene ottimi risultati.
Mostrando un’intelligenza vivace, viene quasi teletrasportato a quello che in futuro sarà l’Hertford College di Oxford. Ma ciò che si studia laggiù lo annoia, ci sono sempre perché a cui nessuno deve rispondere, “perché è così e basta, punto, fine!”, perciò si mette a leggere altro per conto suo, in particolare libri di geografia, astronomia e ottica. Quando passa davanti alle botteghe dei librai rimane a bocca aperta davanti al mondo rappresentato sottoforma di cartina geografica, si rende conto che c’è tutto un mondo da vedere e scoprire, ne rimane totalmente affascinato.
Nel 1608 diventa il tutore di colui che diverrà duca di Newcastle, e i due sono mandati ad effettuare un tour dell’Europa nel 1610; Thomas rimane sconvolto dall’assassinio di Enrico IV di Francia.
Tornato in Inghilterra continua i suoi studi tranquillo e indisturbato, e a quarant’anni suonati comincia a studiare la geometria. Un aneddoto a proposito riguarda Thomas che, entrando in biblioteca e vedendo un libro di Euclide aperto a caso, comincia a leggerlo, e man mano che vede quanti collegamenti può fare con le varie formule geometriche, tira un bestemmione ad ogni passaggio riuscito.
Comincia però a riflettere anche su chi, prima di lui, è stato confutato riguardo a verità scomode, in ambito scientifico: Galileo prima di tutti, e a seguire Descartes (italianizzato Cartesio), che si è cagato addosso dopo aver sentito dello scienziato italiano e ha deciso di non pubblicare un suo scritto. Thomas si rende conto perciò di dover essere certo e inconfutabile, se vuole far pubblicare qualcosa.
Viaggia di nuovo per l’Europa, fra il 1634 e il 1637, nel quale ha l’occasione di incontrare proprio Galileo, e con una leccata di culo abnorme lo esalta a più grande scienziato della storia. Ed è dopo questo viaggio che decide di costruire una grande opera che sarebbe valsa la sua vita.
Si tratta di un trattato sull’intera umanità, diviso in tre parti: il corpo, ovvero materia, sostanza e proprietà generali; poi gli esseri umani, le loro caratteristiche e i loro attributi; ed infine la politica, cioè il governo civile e il dovere dei sudditi. Perciò il “Leviatano” è in programma come ultima parte del progetto; tuttavia gli avvenimenti che avvengono in Inghilterra fanno sì che il filosofo si concentri su questa terza parte prima delle altre, ed è anche per questo che il Leviatano viene più e più volte malinteso dai suoi contemporanei: mancano i pezzi precedenti.
Il succo del testo è che Thomas paragona lo stato, con le sue varie parti, a un mostro gigante, appunto il Leviatano; richiede un’unica intelligenza a controllarlo, e tutto ciò che lo muove è il popolo. Rivela così di volere una forma di governo monarchico, ma dev’esserci uno scambio diretto fra re e sudditi; le domande e le richieste devono pervenire a lui direttamente, il quale poi ne attua le soluzioni, facendo sì che i sudditi siano soddisfatti nel tempo. Ciò che lo spinge a fare una politica del “tutti per uno e uno per tutti” è l’essenza dell’uomo, da lui considerata come malvagia. L’uomo è un egoista, e anche quando si parla di altruismo non si tratta di nient’altro che di un tornaconto futuro che chi aiuta si aspetterà dall’aiutato; e siccome tutti vogliono ottenere il massimo in ogni cosa che fanno, al minimo errore di qualcuno, ecco pronto un altro individuo a prendere il suo posto e a cercare di fare meglio, ottenendo prestigio e fama. Per questo motivo Thomas riprende una frase di Plauto, contenuta nella commedia “Asinaria”, come sottotitolo di molti suoi pensieri: “Homo homini lupus”.
Ciò che però fa diventare un vero e proprio anatema per la Chiesa, e non solo, il suo testo, è l’affermazione che lo spirito non esiste, non in questo mondo almeno. Inoltre il filosofo polemizza sulle università, a favore del papismo, che sono indietro coi tempi che corrono, e con un giochetto logico mette K.O persino i dotti del suo tempo: “vero” e “falso” sono attributi del discorso, non delle cose, e se non c’è discorso, come si può dire che esistono verità e falsità?
L’unica gabula può forse riguardare il suo concetto delle leggi, ma alla seguente domanda si possono dare solo risposte relativistiche e soggettive: se si introducono leggi in uno stato dove l’unica istituzione è il monarca, le leggi stesse non diventano una seconda istituzione? E chi regolamenta le leggi non diventa una terza istituzione? E di conseguenza, non va a rotoli il concetto di rapporto diretto fra sudditi e re?
Comunque sia, si attira addosso l’odio di tutti con un testo visionario, capace di far tremare il Commonwealth, che lo vede come nemico della rivoluzione (ricordiamoci che è appena stato decapitato Carlo I).
Vive giorni da cani, così tanti da fargli rimpiangere di aver scritto quel libro. Ma anche in questo clima ostile ha modo di poter sfidare i matematici, fra cui Wallis, ad un simpatico gioco chiamato “quadratura del cerchio”, sulla quale si interrogavano già i greci. Oggi può sembrare pallosissima come cosa, ma ai tempi si poteva vincere un bel po’ di passera: nel 1686 una ragazza nobile rifiuta di fare sesso con un altro nobile perché non è in grado di risolvere quel problema matematico. Fra Hobbes e Wallis, comunque, vince il secondo perché più giovane e perché unicamente indirizzato ai calcoli matematici, eppure non vince: non riesce a darne una soluzione corretta al cento per cento, seppure si avvicina intensamente all’obiettivo.
In questa vita di continue lotte verbali, sfide matematiche e irriverenze ecclesiastiche, la vita di Thomas Hobbes, il Leviatano della filosofia (che cambia la storia gettando le basi alle filosofie di Rousseau, Locke, Spinoza e Hegel) si spegne dopo 92 anni, nell’ottobre del 1679, colpito da una violenta paresi.

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.