Breve storia della ‘Ndrangheta

[È necessario precisare (data la mole di citazioni e richiami che dovrei fare in ogni paragrafo) che in questo articolo mi riferisco soprattutto al lavoro e alle conoscenze di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, oltre che alle numerose informazioni pervenute dagli archivi della Polizia di Reggio Calabria, Catanzaro Lido e province limitrofe, come Caraffa, Borgia e tutto il Cosentino]

Nui nun simu cavrunar’, nui nun simu chiavist’
Nui facimm ‘e camurrist’, iamu ‘n chulu a chill ‘e a chist’!

Vignetta satirica che raffigura le ombre di 'ndranghetisti sulle orme dei Beatles.
Vignetta satirica che raffigura le ombre di ‘ndranghetisti sulle orme dei Beatles.


Questa è una delle poche canzonette che ci sono pervenute tramite le testimonianze di uomini del passato, trascritte dopo una tradizione orale negli archivi delle procure del Sud Italia. “Non siamo Carbonari” (rifacendosi alle associazioni segrete sorte intorno al 1820), dice la canzone, “e nemmeno gente ingenua: siamo Camorristi”. La cantavano per le strade napoletane agli inizi dell’800 e si diceva che, dopo averla udita, chi la imparava a memoria scappava o moriva. È solo un esempio della grande suggestione causata dal fenomeno della Mafia, che ancora oggi vanta di possedere nobili origini e una mitologia in pieno stile greco.

Una di queste “leggende” è quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Narra di tre cavalieri che, nel Seicento, furono costretti a fuggire dalla Spagna dopo aver lavato nel sangue l’onore di una loro sorella stuprata da uno dei tanti gagarelli lisciati della nobiltà spagnola. Sbarcati sull’isola di Favignana, al largo di Trapani, i tre fratelli rimasero ventinove anni nascosti nelle viscere della terra per approntare le regole di una società segreta simile alla Garduna, una nota associazione fondata a Toledo nel 1412, della quale avevano fatto parte. Di questa associazione ce ne parla anche Miguel de Cervantes in una sua novella: è formata da confraternite di Toledo e Siviglia, composte di uomini d’onore che facevano la cresta sulle vincite nelle case da gioco, ma anche di organizzazioni dotate di codici e gerarchie ben precisi. Erano specializzate in vendette private e delitti su commissione.

Osso Mastrosso e Carcagnosso raffigurati in un'immagine del XVIII secolo.
Osso Mastrosso e Carcagnosso raffigurati in un’immagine del XVIII secolo.

Osso, votandosi a san Giorgio, rimase in Sicilia e fondò la Mafia; Mastrosso, devoto alla Madonna, si trasferì in Campania e organizzò la Camorra; Carcagnosso, con l’aiuto di san Michele Arcangelo, andò in Calabria e dette vita alla ‘Ndrangheta.
Nel linguaggio picaresco del racconto orale si parla invece di tre “poveracci rinsecchiti”. Osso, il migliore dei tre, era detto “mastro”. Mastro dell’osso, Mastrosso, cioè “ossa su ossa”, era un modo di definire lo scheletro dal collo in giù. Infine Carcagnosso, il calcagno e dunque il tallone, era la fonte della deambulazione che portava in giro le ossa, secondo le iconografie sui fantasmi presenti nella pittura italiana del Medioevo.
Questo mito, che vuole esser una Genesi biblica della mafia, è registrato in un processo del 1897 ed è raccontato da Pasquale Trimboli di Sinopoli, uno dei primi pentiti di mafia che volle collaborare con la giustizia. Raccontò questa storia identificando i tre uomini come uno spagnolo, un napoletano ed un palermitano, tutti Camorristi; metaforicamente, questa triade formava un albero. Gli affiliati erano i rami e le foglie, mentre i “giovani d’onore”, ossia gli aspiranti “picciotti”, costituivano i fiori.

La struttura della 'Ndrangheta, registrata dalla Polizia di Stato nel 2011.
La struttura della ‘Ndrangheta, registrata dalla Polizia di Stato nel 2011.

L’etimologia del termine ‘Ndrangheta è altamente apologetico. Secondo alcuni linguisti deriva dal greco di Omero, da una lingua diffusa lungo la costa ionica della Calabria. Andranghetos indicava l’uomo coraggioso e valoroso che non portava mosca sul naso. L’idea era di fare passare quest’associazione mafiosa non come tale, strutturata gerarchicamente, con codici e rituali, ma come un modo d’essere e di pensare. Però questa è una spiegazione posteriore a quella che storicamente è davvero l’origine del movimento ‘ndranghetista.
Questi individui, non classificabili in una casta sociale, comparvero parallelamente alla conquista del Regno delle Due Sicilie da parte dei Borboni: forse da qui si può anche comprendere la sfumatura spagnola delle leggendarie origini della Mafia. Sta di fatto che c’era la mentalità mafiosa, ma non c’era ancora un nome che potesse definire un’alleanza tattica tra i vari clan che gestivano l’abigeato (furto del bestiame da allevamento), la guardianìa (sorveglianza territoriale) e l’estorsione.

Uno dei primi a scoprire le potenzialità di questa malavita fu Henri Beyle, scrittore francese a tutti noto come Stendhal. Nel 1799, dopo aver osservato la repressione sanfedista nella repubblica partenopea, scrive che prima o poi “(…) il calabrese si batterà benissimo per gli interessi di una società segreta, che gli sta montando la testa da dieci anni a questa parte.”
Già nel 1792 un geografo, tale Giuseppe Maria Galanti, in visita in Calabria a seguito del terribile terremoto di quell’anno, scrive di un gruppo di persone chiamati spanzati. Gente oziosa, spesso inquisita, responsabile di omicidi, furti e violenze nei confronti delle donne, con un “manifesto disprezzo per la giustizia, la quale è inefficace a punirli.” Facevano i mediatori in alcuni affari economici molto remunerativi come il commercio della seta. Del resto, tra il ‘700 e l’800 il mercato nero in Calabria era uno dei fenomeni più diffusi nell’attività criminale. Agrumi, olio, essenze, grano, vino, pece, liquirizia, fichi: tutte merci trasferite tramite i porti tirrenici della Calabria verso Nicastro, Vibo Valentia e Gioia Tauro, perché in questo modo non pagavano la dogana. Si stava dunque delineando una società criminale organizzata, ma ancora privi di simboli, codici e rituali.

Alcuni tatuaggi legati al mondo della 'Ndrangheta.
Alcuni tatuaggi legati al mondo della ‘Ndrangheta.

In Calabria il latifondo diede vita al Brigantaggio, raccogliendo il malcontento dei contadini schiacciati dalle ingiustizie. I proprietari dei latifondi si erano arricchiti con le usurpazioni dei terreni demaniali e i Briganti combattevano queste cose, contro le scelte del nuovo ordine che aveva contribuito ad aggravare la situazione socioeconomica della Calabria. Nel 1874 il procuratore generale del Re, Cosimo Ratti, attesta il tramonto di tali “bande malfamate”.

La ‘Ndrangehta invece mise radici più profonde, a Palmi, per poi espandersi a Reggio Calabria e nelle vicinanze. Lì non c’erano latifondi, ma proprietari terrieri arricchiti con le terre destinate ai contadini, dopo le bonifiche realizzate nel 1835. Le colture olearie e agrumicole vennero prese di mira dalle frange più riottose dei contadini defraudati. A Reggio Calabria, nel frattanto, bande di ladri iniziarono a speculare sui vizi e sui miseri consumi dei lavoratori; nelle carceri entrarono in contatto con detenuti politici, delinquenti affiliati ad altre organizzazioni criminali, adottando i riti della massoneria, ma soprattutto le regole della vecchia Camorra napoletana. Le carceri divennero il luogo privilegiato per farsi nuove amicizie; i criminali calabresi iniziarono a darsi un tono, s’inventarono un codice ed un gergo particolare. Silenzio, rispetto reciproco, mutua assistenza. Nacque in questo modo la Picciotteria, la prima ‘Ndrangheta.

È necessario soffermarsi sulla particolare economia della Calabria intorno all’Unità d’Italia, se vogliamo introdurci nella mentalità popolare. Secondo il primo censimento del 1861 il Meridione contava:
– 40% della poplazione nazionale;
– 56% di tutti i braccianti agricoli;
– 51% di tutti gli operai nell’industria (buona parte nella siderurgia).
Gli stabilimenti industriali calabresi davano lavoro a circa mille operai nell’alto reggino, soddisfacendo 1/4 del fabbisogno di ferro dell’intero Regno di Napoli. Questo, sommato con altre attività secondarie e molto richieste, come la liquirizia, il mobilio o il settore delle pelli, dimostra apertamente che la possibilità di arricchirsi mettendo le mani su tutto questo c’era, eccome se c’era. Ma a ciò va aggiunta la pessima condizione agricola del territorio, estremamente povero di risorse sia in montagna che in collina, oltre che alla diffusione della malaria nelle aree pianeggianti. Il lavoro male retribuito e la scarsità di generi alimentari, associato alla possibilità di arricchirsi attenendosi ai codici delle prime organizzazioni mafiose, ponevano le masse popolari davanti a tre scelte: brigantaggio, migrazione o fame.

La distribuzione geografica delle principali cosche che si trovano in Lombardia.
La distribuzione geografica delle principali cosche che si trovano in Lombardia.

Chi sceglieva di restare, obbedire alle regole sorte durante e dopo il periodo del Brigantaggio (conclusosi nella regione nel 1874), era automaticamente parte del sistema mafioso detto “Picciotteria”. Un esempio che ci aiuta a capire questo fenomeno è il “codice Zanardelli” del 1890, che introdusse il reato di associazione a delinquere. È la prima volta nella storia d’Italia che si parla di “associazione a delinquere”: nel precedente codice sardo si parlava solo di “malfattori”.
I primi processi della storia si ebbero dunque nel 1890, a Reggio e a Palmi, città in cui 69 persone vennero giudicate colpevoli di pascoli abusivi, abigeati, guardianìa ed estorsioni ai danni di proprietari terrieri. Venne a galla anche la gerarchia di quell’organizzazione: si sviluppava in verticale e si divideva in due gruppi; i Camorristi (il gruppo maggiore, il livello direttivo) e i Picciotti (il gruppo minore, il livello manovale). Questa distinzione vale ancora oggi.

In quegli anni le relazioni tra i vari clan si sviluppavano attorno alle fiere che si celebravano annualmente lungo tutta la Calabria, grande veicolo per la circolazione di notizie e commerci. Gli animali rubati venivano venduti e macellati in una zona diversa da quella dove erano sottratti, grazie proprio a quegli accordi. Chi non pagava subiva furti e danneggiamenti. E accade ancora oggi.

Stampa d'epoca che raffigura Garibaldi e Nino Bixio a contatto con i "picciotti" siciliani.
Stampa d’epoca che raffigura Garibaldi e Nino Bixio a contatto con i “picciotti” siciliani.


Questi Picciotti e Camorristi creavano il disordine per poi garantire l’ordine. Venivano compiuti furti, danneggiamenti, uccisioni di animali per creare paura, insicurezza, per costringere i proprietari terrieri a chiedere la protezione dei picciotti che, nei vari paesi, facevano di tutto per farsi notare. La picciotteria cominciava ad essere un’organizzazione che doveva restare segreta e al tempo stesso farsi conoscere da tutti. Inizialmente i Picciotti si vestivano tutti nello stesso modo, si tatuavano, si atteggiavano. Secondo la sentenza del primo maxiprocesso della storia contro la Picciotteria, nel 1892, essi si legavano tra loro “facendo uscire il sangue del dito mignolo della mano destra” e stringendosi furiosamente le mani. Come accade oggi.

I codici conferiscono legittimità e costituiscono uno straordinario strumento che garantisce il senso di appartenenza all’organizzazione. Le mafie, e la ‘Ndrangheta in particolar modo, sono organizzazioni identitarie, ma soprattutto elitarie. I codici fanno credere ai mafiosi di appartenere ad un mondo esclusivo, al quale accedono solo coloro che dimostrano di esserne degni. Il mondo dei mafiosi si divide tra quelli che stanno dentro e quelli che stanno fuori. Sei dentro? Sei un uomo. Sei fuori? non vali niente. “Nuddu mbiscatu cu nenti”, recita il detto tutt’ora in uso nelle provincie di Reggio Calabria. “Nessuno mischiato col niente.”

 

"Nenti vidi, nenti sacciu, nenti dissi."
“Nenti vidi, nenti sacciu, nenti dissi.”

 

Ma com’è stato possibile tutto questo?
Se considerate che la giustizia non era ancora pronta ad affrontare un compito del genere, se pensate alla situazione sociale, potete capire meglio. Ciò che in altre parti del mondo si stava affrontando con la nascita dei sindacati, con un’istruzione che aumentava e si espandeva anche in zone rurali, con l’appoggio di imprese e industrie direttamente legate e legalizzate dall’apparato statale, in Calabria e nel Meridione in generale non si affrontava affatto. I problemi del Sud, durante l’Unità, finirono nell’oblio. I contadini e gli operai, senza appoggio e nulla con cui vivere (e come abbiamo visto dalle percentuali, erano molti) si appoggiavano alla Picciotteria per tirare avanti. A quegli individui che aggiravano il sistema fiscale, che avevano il potere di cambiare la vita di tutti con insurrezioni, richieste pressanti allo Stato e che invece finirono col cambiare la loro vita in meglio, lasciando intatta e distrutta al tempo stesso quella altrui. Pochi uomini del genere detenevano il potere, prendevano accordi con i corrotti proprietari terreni, e se volevi vivere sereno allora ti univi a loro, o facevi il partigiano di te stesso e morivi sotto il loro bastone, o dentro la tua assurda fame.
I Picciotti e i Camorristi, insomma, avevano contatti con tutti. Anche con la politica.

 

Il prefetto fascista Cesare Mori in Sicilia nel 1924.
Il prefetto fascista Cesare Mori in Sicilia nel 1924.

 

Il sindaco di Gerace scriveva nel 1895 al prefetto di Reggio Calabria che “(…) questi mafiosi si infiltrano dappertutto, in un partito e nell’altro”. E come è noto, il regime fascista combatté le mafie con Cesare Mori, prefetto in camicia nera che iniziò il suo operato in Sicilia. Quello che non è noto, o insinuato da varie teorie, è il come e il perché. Non c’è qui l’intenzione di percorrere ogni singola teoria complottista, rancorosa, pro comunismo o fascismo. Tuttavia bisogna dire le cose come sono avvenute storicamente.

Fascismo e mafia si scontrarono per motivi di concorrenza fra logiche assolutiste. Quelli a finire nelle carceri con l’intervento della prefettura capitanata da Mori furono straccioni e manovali di poco conto. Erano cioè quei contadini che, a partire dagli inizi del 900, ogni anno si presentavano alle porte della ‘Ndrangheta per cercare di rifarsi una vita e risolvere i loro problemi. Erano impossibilitati a farlo dal pessimo utilizzo della macchina statale fascista per ciò che riguardava le tematiche sociali, in aggiunta al tentativo di radunarsi per anni in sindacati, mandati in fumo dall’intervento del Fascismo sulla loro abolizione, a discapito di nuove norme di lavoro. Tutto questo favorì anche l’immagine romantica di un’organizzazione che rappresentava un modo di essere, che alle menti povere di cibo e di cultura iniziava ad apparire sacra, inviolabile, una forma di salvezza per i loro bisogni.

 

Internet è un'arma d'istruzione di massa.
Internet è un’arma d’istruzione di massa.

 


Non vi è qui l’intento di proseguire oltre, ma solo di porre una breve riflessione alla luce di quanto letto sin qui. Oggi sappiamo che la ‘Ndrangheta, come le altre mafie, si combatte con il carcere duro e la confisca dei beni. Sappiamo che se al mondo esistono davvero buoni o cattivi, la Mafia è il male, in ogni sua forma o dimensione. Sappiamo anche che la classe politica è tutt’altro che estranea al fenomeno della corruzione, che se non interviene sulla mafia è perché ha paura di perdere i voti e i consensi del mondo che ruota intorno alle ‘Ndrine, alle cosche, alle famiglie importanti e al loro impero economico. O peggio, perché i mafiosi stessi sono in politica. E tutto questo lo sappiamo non certo grazie alla scuola, che più che una lezioncina morale all’anno sul fenomeno mafioso non da. Lezione inutile tra le altre cose, perché più che commemorare le vittime di mafia e scuotere il capo per il disgusto provocato dall’empatia del momento, non serve a nulla.

Tutto questo possiamo saperlo soprattutto grazie ad Internet, un’arma d’istruzione di massa.

In un mondo dove molti ragazzi, del Sud come del Nord, sognano la bella vita, ignorando (spesso volontariamente) i problemi del mondo. In un mondo dove ancora la gente continua a negare l’esistenza della Mafia, per quel principio del silenzio che è nato dopo la Mafia stessa. In un mondo come questo, Internet, la cultura, i libri, sono tutte fonti di sapere che possono salvarci. Possiamo distruggere i palazzi imponenti che la mafia ha creato in questi secoli con la conoscenza ed il superamento di vecchie paure, di vecchi vizi, che al giorno d’oggi non ha più senso rivivere sulla propria pelle.
Vorrei dirlo con la bellissima frase dello straordinario romanzo di Victor Hugo “Notre-Dame de Paris”, scritto nel 1831, un anno dopo la rivoluzione parigina di luglio.
Il libro ucciderà l’edificio.”

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.