Amare e temere se stessi: l’arte di Dalì

Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí Domènech, marchese di Púbol (Figueres, 11 maggio 1904 – Figueres, 23 gennaio 1989)

Pittore, scultore, scrittore, cineasta, designer e gay impaurito dalla sua stessa omosessualità. Questa vergogna di essere fino in fondo ciò che è gli costa l’amore di Federico García Lorca e l’ultimo addio a questo potente scrittore spagnolo, prima di essere fucilato. La notizia giunge in tutta europa tramite radio il 19 agosto 1936, e a Dalì fa male per troppi motivi.
Lorca è accusato di essere di sinistra (da giovani entrambi avevano condiviso le stesse idee, anche se espresse e pensate in modo diverso) e omosessuale. Questa particolare motivazione fa riflettere Dalì sugli anni in cui, dal 1922, frequenta la Residencia de Estudiantes di Madrid. All’interno dell’Università Salvador si fa subito riconoscere a causa dei suoi vestiti e del suo look stravagante: vestiti ben oltre l’idea del barocco, tra cui i pantaloni alla zuava dell’inghilterra del XIX secolo, e capelli e basette lunghi (ai tempi era simbolo di trascuratezza e anticonformismo). Attira l’attenzione anche per la sua arte, inizialmente accostata al Cubismo: forse da giovane non se ne rende conto, ma nella scuola di Madrid nessun altro artista usava quel tipo di pittura, il primo e unico ad utilizzarla è lui.
Sempre in quel luogo conosce il futuro regista Luis Buñuel (con il quale farà il film, partecipando anche come attore, “Un Chien Andalou”) e instaura uno stretto e ambiguo rapporto di amicizia con l’aspirante scrittore, e futuro poeta e drammaturgo, Federico García Lorca.
Dalì, ascoltando la sentenza, ricorda il breve momento di isolamento passato con Lorca, ognuno dedito alla propria attività. E’ lì che scoppia la scintilla fra i due, dopo che il pittore crea una delle sue opere più significative, “Little Ashes” (in cui sono rappresentati allegoricamente sia Dalì che Lorca), ma il terrore della propria omosessualità non svanirà mai, e finirà col distruggere il rapporto sul nascere.
Mentre i primi segnali della tristezza e del vuoto d’anima segnano il suo volto, e vorrebbe strapparsi le orecchie che stanno udendo l’esecuzione, Dalì ricorda il giorno in cui lascia la Spagna e si reca in Francia, dove trova gloria, fama, fortuna, e donne (fra le tante, una giovanissima Amanda Lear, sua musa ispiratrice) con le quali avrà rapporti e cercherà di dimenticarsi di quell’omosessualità, ormai latente. Ricorda anche che in Francia era venuto a trovarlo Lorca, e quello era stato il loro ultimo incontro. Dalì si mostra presuntuoso nei confronti di quello che una volta è stato quasi l’amore della sua vita, e con atteggiamento arrogante congeda un Lorca ferito, che sa di aver perso un grande amico, più che una vecchia fiamma. I due non si sentiranno più.
Così, tra Francia e Spagna, Dalì si fa riconoscere per le sue opere bizzarre e surrealiste, in un passaggio dal Cubismo ostentato a Dadaismo, fino a un Simbolismo visionario capace di emozionare e incantare l’occhio dello spettatore (come “Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio” e “Il grande masturbatore”).
Non si occupa solo di pittura: lavora per la televisione, fra interviste, pubblicità e programmi vari; si occupa di fotografia e di cinema; realizza sculture surrealiste (le più importanti sono il “Telefono aragosta” e il “Divano – labbra di Mae West”); si occupa anche di teatro, con un’opera riguardante Wagner, di moda e s’interessa alla scienza, in particolare al concetto di Meccanica Quantistica, per il quale scrive un “Manifesto Antimaterico” nel 1958. Il suo interesse per tutte queste cose si mescolano perfettamente con la foto qui sopra, intitolata appunto “Il Dalì Atomico”.
Dalì molte di queste cose le avrebbe fatte di lì a breve mentre ascoltava l’annuncio della morte di Lorca. Tutto il turbinio di emozioni, verità mai rivelate, si trasformano così in un secchio di tintura nera come la pece, il catrame, il buio nel quale non vuole vedere più nulla; lo prende e se ne cosparge interamente, sporcandosi e rendendosi nero allo specchio che ha di fronte. Forse è stato quel gesto l’ispirazione per la prima fra le tanti grandi opere che ci ha lasciato, o forse è una macchia sul suo percorso, un continuo rammarico che si porta dietro fino alla fine dei suoi giorni, ovvero il 23 gennaio 1989, a 84 anni, mentre ascolta il suo disco preferito: “Tristano e Isotta” di Wagner.
Personaggio eclettico, contorto, geniale e appariscente, che non rinuncia mai a ficcare il naso ovunque, tranne nella guerra, come appunto gli rimprovera severamente George Orwell, affermando che appena sente nell’aria odore di guerra “lui ha una sola preoccupazione: come riuscire a trovare un posto dove si mangi bene e da cui può scappare in fretta se il pericolo si avvicina troppo.”
Ma nella sua umanità, sappiamo certamente che per tutta la sua vita è rimasto fermo, immobile, fedele e onesto in due sole cose.
La sua arte: “Dipingo immagini che mi riempiono di gioia, che creo con assoluta naturalezza, senza la minima preoccupazione per l’estetica, faccio cose che mi ispirano un’emozione profonda e tento di dipingerle con onestà”
E l’amore immenso e narcisistico per sè stesso: “Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalì!”

Pubblicato da Lorenzo Rotella

Laureato in Filosofia, giornalista de La Stampa.